(Napalm Records) Nessuna nuova, buona nuova, dicevano gli antichi: e per il loro dodicesimo album i Kamelot percorrono con maestria sentieri sostanzialmente già noti, osando giusto un paio di timidissimi mutamenti, e sfornando un disco che piacerà certamente alla loro sempre vasta platea. La intro sinfonica “The Mission” si incastra nella opener “Phantom Divine (Shadow Empire)”: keys svolazzanti, un mood cinematografico, un refrain vincente, una sezione ritmica arrembante (c’è il nuovo batterista Jo Nunez)… insomma manna per i fan, che ritrovano, come si diceva, i tipici elementi del Kamelot-sound. Tommy Karevik si tiene su buoni registri, senza mai strafare, ma ormai neanche i suoi nemici più accaniti potranno ancora mettere in campo paragoni con Roy Khan… “RavenLight” insiste maggiormente su toni progressive, con una interpretazione sorniona del buon Tommy; elementi folk e un coro di bambini nella godibilissima “Burns to embrace”, poi è possente la power ballad “In Twilight Hours”, cui partecipa anche Jennifer Haben dei Beyond the Black. “Kevlar Skin” ha un approccio power, mentre “Stories unheard” sceglie tonalità abbordabili e morbide; sono le stesse di “Vespertine (My crimson Bride)”, che sembra quasi un brano degli Avantasia, o uno di quelli che i Serenity indovinano nelle giornate di grazia. Una spruzzatina di estremo in “The Proud and the Broken”, e questo concept fantadistopico su un mondo dominato dalle AI, dove i corpi materiali non sono più necessari, si conclude. Non so quanto “The Shadow Theory” resisterà alla prova del tempo, ma il primo impatto è decisamente buono!

(René Urkus) Voto: 7,5/10