(Rockshots Records) Dopo lo stupefacente debutto “Doin Earde” (recensione qui), e dopo dozzine di concerti i quali confermano la loro capacità di portare sul palco il sound e gli strumenti dello studio, tornano i maestri del folk del Cansiglio. Più fedeli che mai alle loro tradizioni, sono ormai un esempio di purezza artistica, concettuale, tradizionale e culturale. Senza rivangare ciò che rende questa band speciale (leggete la sopra citata recensione o, meglio, andateli a vedere dal vivo), trovo impressionante la loro fantasia creativa, la quale non è semplicemente legata ai temi trattati (vengono da una terra stracolma di eventi storici e leggende magiche) e tanto meno all’impostazione musicale folk metal: la potenza assoluta che dimostrano è la teatralità dell’abbinamento musica/testo; Si tratta di qualcosa che va molto oltre le parole interessanti (in italiano o dialetto) messe sopra ad un riff coinvolgente: qui arriviamo alla poesia messa in musica, un legame bidirezionale inscindibile, dove ciascuna componente contribuisce in maniera essenziale alla messa in scena dei racconti, delle emozioni, dei ricordi, della nostalgia verso storie e simboli che hanno contribuito a costruire la cultura della loro terra di origine. La suggestiva introduzione parlata (recitata!) “Ah, Canseja!”, rivela il titolo dell’album il quale, nel dialetto della band, significa ‘Faville’, con tutto il potente significato metaforico di luce e buio che una simile materia brevemente incandescente può contenere. La pesante “La Battaglia del Solstizio” imposta subito i tratti somatici del disco: ad un primo ascolto c’è delusione… c’è troppo death metal, troppa potenza per una band che ha abituato a certe melodie marcatamente folk-metal; ma i successivi ascolti amplificano l’entrata in scena degli strumenti etnici sopra a dei riff possenti, invitanti e pieni zeppi di groove. “Ander de le Mate“ è più folk, anche se quella sensazione di origine melodic death svedese crea una linea di sospensione, una forza elettrizzante che trascina fino al cambio nuovamente poetico, circondato da musica ricca di suggestione e significato. Magia di antichi mestieri con la brillante “Pojat”, brano con una mirabile convergenza tra poesia e growl. Si spazia dal folk al black con l’intensa “Orcolat”, mentre la poesia della band raggiunge un apice eccelso con l’incanto di “Serravalle”. Pulsante “Vallòrch”, con l’impattante partecipazione di una voce femminile. Ancora feeling melodic-swedish, sempre in chiave folk, con la toccante “Il Lungo Viaggio”, brano che parla di vite, di lavoro, di emigrati verso terre lontane che offrono sogni di fortuna, garantendo nostalgia delle origini. Melodie sublimi chiudono l’album con “Densilòc”, un brano che riesce ad iniettare arrangiamenti moderni in questo inconfondibile folk metal dolomitico. Il valico dell’efficacia del secondo album, spesso una cima irraggiungibile per molti validi debuttanti, è stato qui conquistato. Ora, lassù, sventola lo stendardo dei Kanseil. La band è in forma pazzesca, non sente un minimo affievolimento della creatività e non lo vede nemmeno affacciarsi all’orizzonte. Sono veri. Sinceri. Cantano della loro terra, delle loro origini, dei loro monti, ed anche nella loro lingua. Non si atteggiano a fantomatiche teorie folk multietniche per mettersi in mostra e apparire interessanti: sono se stessi, sono puri… e questo li rende magnificamente irresistibili!

(Luca Zakk) Voto: 9,5/10