SALIGIA. La sintesi, l’unione, l’amplesso dei sette peccati capitali. Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira e Accidia. E Saligia, il Beyond the Gates 2018, è senza dubbio l’ottavo peccato capitale, il peccato più mortale. La dannazione eterna.

Un fest simile, un fest così potente, va oltre le bands, va oltre il bill. Conosco gente che ha comprato il biglietto dei tre giorni (un totale di 17 -numero magico?- bands in tre giorni solo nella location principale) e che ha visto a malapena 3 concerti. Il concerto è un extra, un’attrazione, un punto d’incontro, una scatenante di eventi, incontri, feste, sballi… il tutto tra gente che ama gli stessi colori a base di ombre di grigio e tonalità di nero, gli stessi suoni forti e ossessivi, gente che ha la stessa visione della vita, dei valori. Della morte.

Il Beyond the Gates attira gente. Da tutto il mondo. Da tutti i continenti, dando vita ad una babele culturale e linguistica malata, una babele dipinta di nero, amante dell’oscurità, della decadenza. Del black e dell’occulto. Del metal nella sua forma più pura: quella dal vivo.

Un fest che l’anno prossimo amplifica il rituale offrendo quattro, non più tre, giorni di devastazione, di limite, di eccesso, di potenza sonora votata in maniera ‘religiosa’ all’estremo, all’aldilà, al tenebroso e magicamente mortale. O, forse, immortale?

Il bill di quest’anno è subito incandescente, con headliners di peso atomico fragoroso, come 1349, Mysticum, Taake, Satyricon, Tormentor ed Enslaved.

Bergen è magica, ed in quei gironi si popola di gente ‘dannata’, di eventi a tema (l’iper attiva Galleri Fjalar, i listening session dei Vreid o della Indie Recordings, altri listening session con assaggio di birra a cura degli Slegest). Si passeggia per la città, a qualsiasi ora, ed è impossibile non imbattersi in personaggi della scena, musicisti o semplici partecipanti al fest, tutti dall’abbigliamento riconoscibile e/o con al polso il braccialetto che dà acceso all’USF, al Garage, all’Hulen, le sedi dell’evento.

Musicalmente la città esplode. I turisti normali, con visite programmate e percorsi ovvi, si mescolano a turisti sbandati in cerca di suoni estremi, di musica al limite, di vita notturna e visite di rito alle attrazioni di culto della città. C’è un’energia che vibra, che pulsa. Che respira. Un’energia che vive nel nero più profondo.

Vai a berti una birra e trovi Abbath, oppure il suo bassista. E ci scappa il dialogo o la selfie. Stai guardando un concerto e ti rendi conto di essere a fianco di Hoest. Vai in un ristorante e ti trovi seduto con Gaahl il quale parla di vino, ti indica dove stavano gli studi da dove sono uscite decine di dischi estremi, Trelldom e Wardruna compresi. Un Gaahl che confessa di amare le venues piccole dove può interagire con i fans (“odio essere qui sul palco ed il primo fan a decine di metri là in fondo…”). Compri un disco dagli Slegest che stanno al pub e ti fai fare pure una dedica personale. Intanto bevi con loro. Intervisti i Krakow e poi parli dei figli, e torni ad essere umano ricordando gli impegni familiari.

Incontri gente a caso, e di colpo ti rendi conto che sono spesso musicisti di qualche band nota nel giro, gente che di solito ammiri da lontano mentre loro saltano su un palco.

C’è un continuo incrocio di sentimenti, esperienze, condivisioni, festa, allegria, rabbia e amore per qualcosa che va oltre la musica o il look, un qualcosa che non è nemmeno stile di vita ma bensì… essenza di vita.

Tra la gente che s’incontra, le amicizie che nascono, i saluti, gli addii, i ritrovi, gli eccessi esiste anche il festival, di fatto la clessidra, il campanile, che scandisce eventi e spostamenti, una colonna sonora di alcuni giorni di festa spensierata, nel nome di una passione totale, nel nome del peccato.

-Beyond the Gates, Giorno 1-

I Deus Mortem aprono con brutalità, offrendo subito un black metal molto raw, violento. Un barlume di piacevolissimo Satanismo, dal gusto Old School. I cancelli sono aperti e non c’è più controllo o pace.

I Sinmara sono devoti all’oscurità. Le loro melodie profonde esaltano il loro essere inquietanti sotto i cappucci, mentre riff brutali esplodono sempre in un contesto melodico. Per certi versi mi ricordano, molto lontanamente, gli headliners del giorno dopo, i Satyricon.

I Malokarpatan, sono brutti. Così brutti che risultano stupendi. Magnifici. Sul palco sono scazzati, diretti, espliciti ed assolutamente incuranti del concerto che stanno suonando o del pubblico che li sta ammirando. Un sound che è una versione menefreghista ed estrema dei Motörhead. Il cantante è l’immagine elevata all’ennesima potenza della band: il più brutto, il più alcolizzato. Il più sconnesso dal mondo.

I 1349 sono una furia. Nonostante l’assenza di Frost alla batteria (sostituito probabilmente dall’ex Dark Funeral, Nils Fjellström), offrono un concerto mostruoso, incessante, veloce, devastante. Ravn è in perfetta forma, estremo, senza controllo, molto arrabbiato, totalmente grintoso, pericolosamente graffiante. La band più prepotentemente black metal, per immagine, suoni e velocità, dell’intero festival… se non ci fossero stati i…

Mysticum! I Mysticum sono odio. Sono istigazione al suicidio, alla malattia mentale, alla depravazione, alle dipendenze chimiche, all’ateismo militante armato, all’esaltazione di Satana. Una band mitica, leggendaria, unica. La loro leggenda vive di vita propria: loro hanno creato un disco nel 1996, ne hanno promesso un altro… hanno reso noto il titolo… poi sono scomparsi per quasi vent’anni (senza dichiarare lo scioglimento) e, al loro ritorno, hanno sferrato il colpo letale, pubblicando quel concentrato di estremismo intitolato “Planet Satan”. Il loro show è pericoloso. Velocità disumane, luci compatibili solo con stati di terminale allucinazione. Herr General Cerastes è l’inquietudine pura, sballo, ansia: un uomo che non ha pace, che non trova pace e che forse nemmeno la cerca. I suoi movimenti isterici, anche tra un brano e l’altro sono l’anticamera dell’instabilità psicopatica di questa band IMMENSA.

-Beyond the Gates, Giorno 2-

I Blood Incantation portano ulteriore oscurità. Ed altra violenza. Ma sono particolari ed efficaci, in equilibrio tra old school, thrash ed un black che guarda all’atmosfera. Il tutto in chiave melodica e con vari efficaci assoli di stampo death metal. Perfetta apertura per la seconda giornata di estremismo sonoro!

One Tail, One Head: la serata esplode con questi pazzi deviati. Il loro black è tagliente ed incisivo, ma tutto viene esaltato da una presenza scenica travolgente! Palco intenso, dinamismo assoluto… una live band totale che evidenzia ed esalta il significato del dire “vado a VEDERE un concerto”. Senso diverso: “Vedere”, non solo “Sentire”! Con loro potete tapparvi le orecchie… lo show sarà comunque esaltante!

Bölzer, praticamente l’ego smisurato di KzR, un ego che si esprime al massimo sul palco, una garanzia, una band che sa intrattenere e caricare il pubblico. Il quale si lascia andare!

I Grave Pleasures virano tutto su altre direzioni. I finlandesi offrono un punk esplosivo, scatenato. Dal palco emettono energia, un palco che torturano, che sanno gestire in modo eccellente pompando il pubblico in maniera spensierata! Punk is not dead!!!

I Taake di Hoest sono il primo evento “revival” del fest. Il giorno successivo, come l’anno scorso, sarebbero stati gli Enslaved a suonare un album degli inizi carriera, ma in questa serata toccava ai Taake devastare il palco con furia inaudita suonando l’intero “Nattestid ser porten vid”, album vicino ai venti anni di età. Hoest è carico e scatenato come sempre… dopo tutto l’evoluzione della band non si è scostata di tanto dalle linee guida tracciate agli albori (cosa completamente diversa per gli Enslaved), pertanto il frontman riesce ad offrire uno spettacolo diretto e brutale esattamente come ogni sua apparizione sul palco, sia essa con la sua band o con i Gorgoroth. Un set di black metal viscerale, diretto e puro.

I Satyricon un po’ mi deludono. Li ho visti tante volte, e questo non è sicuramente stato il loro miglior concerto. Satyr era carico, intenso, dinamico… ma in un certo senso freddo, commerciale, poco coinvolto, quasi un concerto routinario. Pure il resto della band, tranne l’intramontabile Frost, era vagamente assente, anche se capace di un’esecuzione perfetta ed efficace. La set list un po’ più estrema era in linea con l’orientamento del fest… e con i peccati capitali!

-Beyond the Gates, Giorno 3-

I Portrait sono dei metallari svedesi. Sembra una cosa ovvia, ma loro lo sono davvero. Vederli dal vivo è un salto indietro ai tempi d’oro: borchie, pelle, metallo, sudore, voce. Musicalmente siamo in un tempo dove le divisioni dei sottogeneri ancora non esistevano, ma potrei identificare in loro il momento del passaggio tra l’heavy e lo speed. Il singer è un portento, una voce poderosa, capace di arrivare ad acuti molto elevati.

Anche gli americani Eternal Champion puntano al metallo. Il singer è una bestia scatenata, un animale al quale non basta lo spazio a lui riservato sul palco (chiedete ai fotografi nel pit…). Loro suonano power metal americano, non evitano sferzate thrash senza comunque dimenticare il feeling classico di alcuni tocchi palesemente Maideniani.

 

Gli Hällas appaiono stupendi: l’abbigliamento folk-settantiano, l’organo, l’aspetto ambiguo. La loro musica è un rock ‘avventuroso’, vintage, intenso… ma la voce “vorrei essere Lemmy ma non posso” del vocalist non mi piace. Ciononostante offrono uno spettacolo bello, divertente, coreografico… ed apparentemente il pubblico, forse in preda ad eccessi narco-alcolici, ama la band svedese alla follia, mentre io sorseggio del vino osservando una performance che non riesce ad esaltarmi.

I noti Attic sono stupendi sul palco. La loro musica, non è una novità, è una derivazione di King Diamond e Mercyful Fate, con il singer estremamente simile. Ma con un tocco di quasi-fantasia, danno vita ad un power metal rituale, un sound che punta più sulla potenza che sul mistico… anche se l’abbigliamento ed i candelabri riportano tutto sul liturgico tetro. Una piacevole costante contraddizione che ha il suo perché e la sua resa scenica.

I redivivi Tormentor sono IMMENSI. Il loro proto-black è geniale, musica che ancora sente influenze blues e rock, con un chitarrista capace ed estremamente espressivo. Attila, ovviamente, domina la scena. Con pazzia, con instabilità mentale, con movimenti mirati e pregni di occulto. Un black metal che non è ancora black metal, un metal che guarda(va) avanti verso evoluzioni estreme, poi ampiamente esplorate da tutti quelli che sono venuti dopo.
I Tormentor sono le radici del black assieme a Mayhem, Master’s Hammer e Bathory. Gente che ci è arrivata prima, gente che ha preso quello che c’era e l’ha spinto avanti, aprendo una porta davanti a loro senza chiudere quella che li precedeva. La loro musica è infernale e catchy, è veloce ma piena di ritmica. È black metal che esalta l’headbanging ed il mosh dance… mandando letteralmente in cortocircuito l’efficiente macchina della security del fest.

Ancora una volta, come l’anno scorso, sono gli Enslaved a chiudere, a riassumere i sette peccati capitali. Lo fanno con “Frost”, il loro secondo album ormai quasi venticinquenne, qui suonato per intero, canzone dopo canzone. A differenza di Hoest con i suoi spettacolari e convinti Taake, gli Enslaved prendono tutto alla leggera. Sono professionali, ma si divertono e ridono. È la band di casa, sembra stiano suonando per un gruppo di amici. Anche all’epoca la loro musica -black metal diretto- faceva percepire la presenza di ‘qualcosa di più’, ma quel qualcosa si è sviluppato più tardi. Pertanto la band di oggi è molto lontana dalla “semplicità” melodica di “Frost” e i ragazzi se la prendono veramente comoda, si divertono, scherzano… con un Ivar Bjørnson che fa letteralmente ridere il pubblico con uscite del tipo “indovinate qual è la prossima canzone”, oppure mettendo in dubbio le loro capacità di ricordare i brani… ed anche prendendo in giro il tastierista Håkon Vinje, oggi 26 enne ma “ancora in fasce” ai tempi dell’uscita di “Frost”. Lo spettacolo continua con effetti scenografici che esplodono in una nevicata che copre il palco ed il pubblico, chiudendo definitivamente il sipario di questa vivida e stupenda edizione del Beyond the Gates 2018.

Beyond the Gates: un fest che ormai ha vari nomi amichevoli (io ho coniato un “Beyond the Glasses”, un’amica ha dato vita al “Beyond the Graves”… ma ce ne sono tanti altri… tra un drink e l’altro emergono alla grande!): la gente si sente a casa in occasione di questo fest, ed è normale che per tutti diventi personale, familiare, intimo. L’organizzazione, quest’anno, si è superata: impeccabile la gestione degli accessi, dei pass, dei permessi, dell’area espositiva (esponeva anche Costin Chioreanu con le stampe dedicate ad “Anno Domini” dei Tormentor!), dell’area esterna.

L’unico neo è la dislocazione: il fest principale si tiene all’USF, poi ci sono dei concerti nel primo pomeriggio al Garage, con band minori… ma anche con meno pubblico in quanto il 90% dei blacksters che invadono la città in quei giorni è ancora a letto, in preda ai postumi della notte precedente. C’è stato poi l’unico concerto del 2018 dei Mare… questi dislocati all’Hulen, una bella location intima, piccola e nascosta… a circa 2 km (a piedi) dall’USF, dopo mezzanotte del primo giorno; questo ha portato ad un parziale svuotamento dell’USF durante i Mysticum (tranquilli, io non mi sono mosso dalla transenna!), una migrazione verso l’Hulen sotto un diluvio di tipo nordico. Un ritardo dell’entrata in scena dei 1349 ha reso matematicamente impossibile vedere tutte le band all’USF ed arrivare in tempo all’altro locale con garanzia di ingresso. Risultato? Hulen non pieno (un posto piccolo con accessi molto limitati…), Mysticum con metà pubblico, ed uno stormo di esseri umani in pelle e borchie dispersi tra i locali della città, sotto quel diluvio che sembrava punire l’umanità per i sette peccati capitali storici e l’ottavo in corso di compimento.

L’anno prossimo la formula sarà la stessa… apparentemente i Watain saranno la band “intima” da far suonare dopo una serata all’USF nella location secondaria. Parlando con l’organizzazione ho suggerito di far suonare questa band nella location separata molto più tardi… magari alle 4 del mattino. Assurdo? Assolutamente no… non solo serve tempo per riprendersi dai concerti principali e trasferirsi dall’altra parte della città… ma la notte è viva a Bergen. Un concerto alle 4 del mattino sarebbe la perfetta continuazione tra fine degli eventi principali, la successiva chiusura dell’ultimo pub e la continuazione di una festa che sorge qualche giorno prima del festival, nega il sonno e, forse, non tramonta mai.

(Luca Zakk)