(Metal Blade Records) C’è chi ancora con ci crede, ma io da “I’m Alive” ho compreso che non è un sogno: a 29 anni da “Paradise Lost”, i Cirith Ungol tornano con un disco di inediti. E che inediti! Se molti comeback di band storiche sono stati deludenti, del tutto o in parte, gli Ungol non sbagliano veramente un solo, singolo brano, e si riprendono tutto ciò che il grunge, la desolazione dei nineties e i lunghi anni di silenzio e delusione gli hanno, ingiustamente, tolto. Solo 39’ per “Forever Black”, il che significa nessun filler, ma significa anche che “Witch’s Game” resta sul singolo 12’’ che a questo punto spero già abbiate (se non è esaurito)… Il tempo della breve intro, poi “Legions Arise” è una sorta di versione incattivita e sublime di “Blood and Iron”: il riff ipnotico ci conferma senza dubbio che i Re dei Morti sono davvero tornati! Ci si volge al più remoto passato con “The Frost Monstreme”, che (fin dal titolo) recupera le atmosfere di “Frost and Fire”, e addirittura qualche scampolo della psichedelia dell’esordio; per chi sappia ben ascoltare, il refrain riprende e velocizza addirittura quello di “King of the Dead”. In “The Fire divine”, brano strettamente imparentato con il precedente, io ci sento addirittura qualcosa di “Edge of a Knife”, dunque quei suoni che vengono direttamente dalla fine dei seventies e che la produzione ha incredibilmente salvato. Con “Stormbringer” mi sembra invece che passiamo alle disperate atmosfere di “Paradise Lost”: la breve sezione acustica iniziale, con il cantato in chiaro, crea una situazione magica, e l’oscura progressione dice certamente “Chaos Rising”. Anche la più lineare “Fractus Promissum” ha quei suoni di chitarra un po’ smargiassi di “Fire” o “Heaven Help Us”; e “Nightmare”, che ha forse i suoni più doom di tutto il disco, nella strofa velocizza ancora gli andamenti cadenzati di “Chaos Rising”. Apice del disco è certamente il singolo “Before Tomorrow”, nel quale io sento molto dell’oscurità di “Fallen Idol”: e ditemi quanto poco vi ci vorrà a cantare il raggelante refrain (‘Today we live in anger / Today we live in fear / Someday before tomorrow / Today the end is near’). Si chiude con la titletrack, che riprende a sua volta l’heavy/doom misterioso e compatto di “King of the Dead”, con Robert Garven che cita se stesso alla batteria e un segmento marziale che fa impazzire. La fedeltà filologica al passato stavolta non è uno sterile ripiegarsi su se stessi, ma una fedeltà alle origini che è sbalorditiva per un disco del 2020. Per non assegnare come voto 10/10, chiudo con una critica: speravo, volevo un brano sui dieci minuti, qualcosa di così oscuro e sword & sorcery che potesse competere con “King of the Dead”. Pazienza… l’avrò sul prossimo disco! Copertina, inutile dirlo, di Michael Whelan.

(René Urkus) Voto: 9,5/10