copsonataarctica2(Nuclear Blast/Audioglobe) Non so quanti anni abbia il lettore medio di MetalHead. Quasi sicuramente meno di me, ma se c’è qualcuno lì fuori che era adolescente a metà anni ’90, ricorda certamente il botto che fecero i Sonata Arctica con “Silence”, che ancora considero come uno degli album fondamentali della golden age of power metal. Ecco, temo che il punto sia questo: se hai vissuto quella stagione, se hai sentito (e visto) QUEI Sonata Arctica, quelli di oggi ti suonano un po’ ‘strani’. Sono uno di quelli che crede che “Unia” sia un disco quasi pessimo (e non credo di essere il solo), che “The Days of Grays” fosse invece molto buono perché era oggettivamente un passo indietro, e che “Stones grow her Name”… beh, ne ho parlato QUI e confermo la mia idea, è l’album di qualcuno che è in mezzo al guado e si sta guardando intorno per decidere se andare avanti o indietro. Ascoltando “Pariah’s Child”, direi che Kakko e compagni hanno deciso di nuovo di volgersi indietro: nei dieci brani della scaletta ci sono più power metal classico e ritmi più lineari, anche se ovviamente non siamo tornati a “Ecliptica”… né ovviamente questo sarebbe stato possibile (e forse auspicabile). Vediamo allora che succede. L’opener “The Wolves die young” ha l’approccio di “Reckoning Night” ma i suoni di “Unia”… e per farne un brano da ‘vecchi’ Sonata Arctica manca comunque la velocità. Non male, in ogni caso. Ecco, se proprio vogliamo l’unico pezzo in scaletta che ricorda davvero i bei tempi andati è “Colud Factory”, con il suo refrain melodico e cantilenante. Un bel tuffo nel passato! “Running Lights” mescola rumori da Formula Uno con l’approccio progressive di “Stone growes her Name”, mentre “Take one Breath” si dà a quei toni sinfonici e operistici di brani come “Caleb” o “Juliet”. Sono gli stessi di “What did you do in the War, Dad”, che però ha un respiro solenne e magico, quasi lo stesso di “White Pearl, Black Ocean”, e che candido certamente a pezzo migliore della scaletta. “X Marks the Spot” è funestata da una insopportabile voce parlata molto su di giri, che sul finale organizza un coro soul; “Love” è una ballad onestamente un po’ spenta (ancora una ballad scadente… che fine ha fatto il feeling di “Tallulah”?) prima dei dieci minuti di “Larger than Life”, che è certamente la summa, nel bene e nel male, dei ‘nuovi’ Sonata Arctica: passaggi cinematografici, talora struggenti, talora vagamente burleschi, si affiancano a parti metalliche che ormai fanno pensare più al prog che al power. Tiro le somme con grande difficoltà: “Pariah’s Child” supera certamente “Stones” ma non “Days of Grays”, farà (abbastanza) felici i vecchi fan ma non scontenterà chi crede che i Sonata siano solo quelli ascoltati negli ultimi cinque-sei anni. È un buon compromesso per una band che, lasciatemelo dire, aveva fallito due degli ultimi tre dischi; un compromesso che incoraggio con un voto un po’ più generoso di quello che mi sentirei di attribuire, ma che certamente non è gonfiato ad arte.

(Renato de Filippis) Voto: 7,5/10