copIRONMAIDEN

(Parlophone) Album numero 16 per le leggende viventi. Oggettivamente sono loro la storia del metal, coloro grazie ai quali un genere è potuto nascere e svilupparsi. Come i primi seminali album hanno poggiato le fondamenta di una cattedrale, nella seconda metà degli anni ottanta e nella prima degli anni novanta è stata completata una mastodontica opera di costruzione di un genere musicale. Nel 2003 canto del cigno con “Dance of Death” e posa dell’ultimo tassello del puzzle. E poi? Passiamo all’album e tutto sarà chiaro ad analisi finita. Dopo la lunghissima intro dell’album precedente, “The Book of Souls” si apre con un Dickinson narrante, il quale ci avverte che quello che ci accompagnerà per i prossimi 93 minuti è il suono dell’anima di un uomo, quasi ad avvisarci dell’ecletticità dell’album… Pochi giri ritmati e comincia finalmente a far capolino la chitarra. Colpisce subito il suono in presa diretta, ormai quasi un marchio di fabbrica del combo inglese. L’atmosfera di “If Eternity Should Fail” è piuttosto oscura ma anche malinconica. Sembra un estratto dalla carriera solista del singer, con un lavoro di Smith molto accorto nelle partiture, nei ritornelli e negli assoli. Come per il platter precedente, a memoria non ricordo nulla di simile o di già sentito da parte della Vergine di Ferro. Il suono è moderno ma allo stesso tempo Iron al 100%, con la voce di Bruce che per la prima volta sembra sentire gli anni che passano. Il risultato è una canzone godibile, non immediata, ma che si colloca su livelli ben più ispirati di qualsiasi traccia dell’ormai penultimo album. Con la seconda traccia troviamo anche il primo singolo, scelto probabilmente per il minutaggio piuttosto che per la rappresentatività del platter. Che dire di “The Speed Of Light”? Un pezzo immediato, hard rock e pacchiano fino all’inverosimile. Ma potete scommetterci che vi resterà in testa per un bel po’ di tempo. Finalmente per la prima volta i nostri hanno capito come sfruttare appieno tre chitarre, sensazione confermata per tutto il resto del lavoro. Il basso di Harris apre “The Great Unknown”. Colpisce la voce da narratore di Dickinson, più matura ma anche più calda. Classica storia orchestrata in stile “Dance of Death”. Comincia ad intravedersi il certosino lavoro di scrittura del gruppo, veramente ispirato. Chitarre acustiche in stile “The X Factor” introducono una composizione di oltre tredici minuti. “The Red And The Black”, pezzo articolato che richiama pure atmosfere da “The Seventh Son…” e della splendida “Rime Of The Ancient Mariner”. Non fosse per i bellissimi assoli in chiave blues, sarebbe il brano meno riuscito del lotto. ”When The River Runs Deep” è un altro possibile singolo, immediato e con una vena smaccatamente Hard Rock, con uno dei più begli assoli del gruppo che ricordi. La title track è una traccia piuttosto articolata, cupa e con una vena vagamente prog in stile con il precedente lavoro. Il ritornello strapperà qualche lacrima ai nostalgici di “Brave New World” ma anche di “Powerslave”. In assoluto il migliore brano del primo cd, vale da solo il prezzo del disco. Il secondo cd cambia registro. Le canzoni sono mediamente più corte (con l’esclusione dell’ultima monumentale traccia). “Death Or Glory” ci riporta indietro di una buona ventina d’anni. Qui ci sono gli Iron che abbiamo imparato ad amare. La successiva “Shadows Of The Valley” ci ripresenta un Dickinson ringiovanito di quindici anni, mentre “Tears Of A Clown” ha in assoluto il riff più Hard Rock che la Vergine abbia composto da molti anni a questa parte. Con “The Man of Sorrows” abbiamo una splendida ballata narrata, giusto come apripista per… Beh, descrivere “Empire Of The Clouds” è difficile. Sarà una graditissima sorpresa per ogni fan del gruppo, una canzone oggettivamente splendida. Diciotto minuti dove i nostri hanno raggiunto picchi compositivi inaspettati. Dentro vi si trova tutta la carriera del gruppo, che con gli ultimi tre album ha cesellato stupendi intarsi e magnifiche guglie nella cattedrale della nostra metafora. Ormai loro con gli strumenti fanno quello che vogliono, liberi da tutto, anche dal genere che hanno creato. Incommensurabili. Il voto non serviva, era un puro orpello insignificante. Ho scritto il primo numero su cui ho posato gli occhi, giusto per riempire lo spazio. Di parte? Si, sono colpevole. Ma solo per un motivo. Amo l’Heavy Metal.

(Enrico Burzum Pauletto) Voto: 2015/10