(Sliptrick Records) Servono vari ascolti per assimilare completamente l’essenza di questo nuovo lavoro degli italiani Damned Pilots. Si tratta di una band recente (formatasi nel 2013), con all’attivo solo un EP. Ma “Overgalaxy” non è qualcosa di semplice, tanto meno acerbo. Anzi: la band è sufficientemente sconnessa dal mondo quotidiano, dalla superficie terrestre da poter iniettare in questo disco un sound intelligente, in a modo loro omogeneo, anche se difficilmente classificabile. A prima vista (ascolto) il disco sembra un collage di cose incompatibili, ma solo dopo vari ascolti si riesce a percepire la visione di insieme e la sottile genialità nell’accostare un brano all’altro dento lo stesso supporto. Si potrebbe dire che si tratta di un metallo moderno, ma anche tradizionale. Ci sono segni apocalittici, atmosfere digitali, deviazioni psichedeliche e qualche dettaglio industriale grazie al quale viene proposta una sensazione di gelo astrale perversamente avvolgente. La title track è metallo potente, ma ricco di modernità… con un po’ di fantasia ci sento dettagli che troverei in un album di Mortiis incrociato con sonorità heavy/prog/power, il tutto in chiave groove metal. “Season Of The Ending” è un capolavoro: brano magnetico, con un crescendo superbo, un groove espresso all’ennesima potenza, melodia massiccia, riff granitici e un ritornello crudele, lascivo, micidiale, assolutamente indimenticabile, nel quale il vocalist dimostra il suo valore. “Desert Europa” è intenso, freddo, ma anche coinvolgente e suggestivo: metallo moderno con influenze vintage (confermate dalle tastiere!) ma anche ispirazione di stampo black, quel black un po’ strano, ai confini, che bands come i Satyricon sanno produrre. “Just Another Day” è una ballad molto catchy, quasi hard rock ma con quel tocco post nucleare che genera quelle sensazioni mostruose non offerte da un brano hard rock… forse un incrocio tra il mitico genere degli anni ’80 ed idee che poche band hanno reso interessante, Death SS in primis. “Gorguss” passa al psycho-doom, “People Don’t Die” è quasi un southern-apocalittico proveniente da ere prive di collocazione temporale. Ancora metallo freddo e post-digitale con “Hell is Cold”, incrocio tra ’80 e ’90 con “Sylvanic”, mentre la conclusiva “Mos” cambia le regole completamente, offrendo un brano palesemente drone, il quale un po’ è fuori luogo se non lo si valuta come bonus track, o lunghissimo ‘outro’, nel quale viene descritta con dei suoni l’immensità astrale nel quale si muovono questi quattro artisti provenienti da un mondo non ben definito, o da una dimensione non perfettamente sincronizzata con la nostra, dove lo spazio e il tempo si muovono con parametri diversi. Parametri surreali che offrono l’illusione di essere misurabili durante tutta la durata dell’album… prima che l’illusione svanisca lasciando alle spalle quella sensazione strana che solo un sogno (o un incubo?) è capace di offrire subito dopo il risveglio: la confusa fusione di ciò che appartiene alla realtà e di ciò che vaga nei meandri all’immaginazione.

(Luca Zakk) Voto: 8/10