La domenica dell’Hellfest è sempre la più bastarda. Non solo perché le forze iniziano a mancare, ma perché sai che finirà, che quello che stai vivendo ha le ore contate. Ed è proprio per questo che tutto entra più in profondità.
La giornata si è aperta col sapore dolce-amaro dell’addio che si avvicina, ma senza alcuna intenzione di rallentare. Anzi. Il pubblico era ancora più caldo, ancora più unito, ancora più pronto a dare tutto. Perché se devi salutare, lo fai bruciando tutto fino all’ultima scintilla. Il sole, alto e spietato, non ha fermato nessuno. Anzi, sembrava quasi parte del tutto. Abbiamo gridato ancora, cantato ancora, vissuto ancora. Sul palco si sono alternate band che hanno scavato nel profondo dell’anima.
Il pomeriggio sui palchi principali si apre con la leggerezza irresistibile degli Eagles of Death Metal. Suoni roventi con un ritmo rock’n’roll da ballare. Il pubblico, ancora sveglio dopo sedici ore di festival, si lascia andare ai ritornelli… estremamente divertito.
Sul palco Valley invece esplode l’orgoglio italiano: i Messa.
Accolti come si accoglie chi torna a casa dopo aver conquistato il mondo, regalano un set intensissimo, lente dissolvenze doom e picchi emotivi guidati dalla voce magnetica di Sara. Il pubblico, pur provato dal caldo torrido, rimane rapito, in silenzio quasi religioso, e scoppia in un applauso sentito, rispettoso. Era un momento nostro. E ci siamo emozionati tanto nel vedere quanto siano piaciuti.
Subito dopo, il passaggio da sacro a profano è servito dai Gutalax, che trasformano l’Hellfest in un carnevale grind-core. Schiuma, carta igienica lanciata, pogo, bagni chimici per aria e risate incontrollabili: un vero intermezzo comico, come solo loro sanno fare. Una valvola di sfogo perfetta, prima di rientrare in modalità contemplativa con i Kylesa, tornati più in forma che mai. Psichedelia e sludge avvolgente, con un’energia che avanza inesorabile e ti trascina.
A sorpresa, due delle più grosse scoperte di giornata in arrivo da territori sonori molto diversi: Priest e HEALTH. I primi, oscuri e danzerecci, mettono in scena un synthpop decadente, mentre i secondi incendiano l’aria con un electro-noise distorto e devastante, una performance fisica, quasi rituale. Nessuno se l’aspettava così intensa, ero estasiata.
Il cuore torna poi agli anni passati, con il set nostalgico ma carico di energia degli A Day to Remember: un alternative capace di radunare sotto al palco almeno due generazioni. Poco dopo, ancora nostalgia ma con tutto un altro sapore: i Cypress Hill tornano sul Mainstage e il pubblico è “un’onda che ondeggia”, fuma, canta e sorride. La connessione è perfetta, l’hip-hop si mescola al metallo liquido del tramonto che avvolgeva le installazioni del grande parco dei palchi.
Il vero momento di poesia, però, lo regala Jerry Cantrell, sullo sfondo di un cielo che si colora d’arancio. Le note, le parole, la presenza scenica: tutto si incastra in modo cinematografico. Il verde del festival, la luce calda, gli occhi lucidi. Un concerto che ha saputo fermare il tempo e che ricorderò col sorriso mentre mangiavo un ottimo gelato.
E infine… il gran finale.
Le luci del tramonto cominciano a calare e con esse una notevole malinconia inizia a farsi sentire prepotentemente: il pensiero che tutto stia per finire mi prende alla gola. Ma non c’è tempo per i rimpianti. C’è ancora un ultimo atto da vivere. E che atto…
Sul Mainstage si preparano i Linkin Park, headliner della serata conclusiva. L’attesa è soffoncante, il pubblico è un tappeto umano che si stende ovunque. Quando parte il primo brano, l’urlo collettivo è potente. Ogni canzone è un inno generazionale. Il tributo a Chester è toccante, ma la band non si piega al ricordo: è viva, potente, e contemporanea. Il pubblico canta tutto, dall’inizio alla fine, con lacrime, pugni alzati e sorrisi grandi così. Uno dei karaoke più grandi mai visti in Europa, forse nel mondo. Un’unione vera tra palco e platea. La nuova cantante è stata veramente bravissima.
Poi, a mezzanotte e mezza spaccata, il silenzio.
Improvvisamente, l’ultimo regalo: fuochi d’artificio lanciati a tempo sulle note di “Raining Blood” degli Slayer e “Thunderstruck” degli AC/DC. Il cielo sopra Clisson è esploso, illuminando le facce estatiche di decine di migliaia di persone. Un finale a dir poco da brividi. Un bellissimo boost di emozione per affrontare la nottata pre-partenza.
CONCLUSIONE
È stato tutto incredibilmente emozionante, devastante e unico. Un’esperienza che non si dimentica, che ti entra nella pelle, nel cuore e nel cervello. Mi sono sentita parte di qualcosa di più grande, parte di una famiglia senza confini , parte di suoni, anime e passione. Ricorderò per sempre i volti accanto a me, quelli di perfetti sconosciuti con cui ho condiviso sorrisi, lacrime e musica. Il mio cuore è rimasto lì, in quel pezzo di terra francese, a distanza di giorni ci ragiono e mi sento cambiata positivamente come persona, volendo anche cresciuta… E so che prima o poi, ci tornerò. Oltre 200.000 persone hanno condiviso con me sudore, birra e passione in quattro giorni che sembrano una vita intera. Non si va all’ Hellfest solo per la musica: si va per sentirsi parte di una nazione. E quest’anno, quella nazione ha avuto il suo inno. A tutto volume. Auguro a chiunque di poter vivere quest’esperienza unica. Spero di essere riuscita ad evocare, nelle menti di chi legge, almeno un quarto del sogno lucido che ho vissuto.
(Aleksandra K. Klepic)
Foto: Death Poet Society, A Day To Remember, Cypress Hill, Eagles Of Death Metal, Kylesa