È morto Ozzy. Notizia che ha fatto velocemente il giro del mondo, scatenando reazioni da parte di qualsivoglia personalità (rockstar o meno), qualsivoglia giornale (specialistico o meno), qualsivoglia blogger (di settore o… di tutt’altro target). Qualsivoglia essere vivente con l’accesso alla rete. Oggigiorno funziona così.

E io, che scrivo per una piccola testata con tematica rock e metal, la quale avrebbe tutto il diritto di parlare di Ozzy, avevo fatto voto di silenzio. Che altro dire? Cosa dire che non sia già stato detto? Una sfilza di altre parole cotte e stracotte, che celebrano la dannazione di Ozzy, le sue origini, le sue dipendenze?

Per quale motivo pubblicare un’altro articolo pieno di dati biografici e riflessioni filosofiche sul rock, sulla dannazione, sulla dipendenza, sulle origini umili, sull’essere se stessi, su qualsiasi altro aspetto oggi reso epico dalla morte di un pazzo alcolizzato capace di incendiare le masse? Non è da me. Non era da me.

Ma sono stato punto, stuzzicato, anche gente che forse non ha mai seguito Ozzy, forse manco sentito una canzone di Ozzy (anzi “di Ozzy”, rigorosamente tra virgolette), gente che non sa cosa possa egli rappresentare Ozzy per un metallaro che con quella musica si è formato fin dall’adolescenza. Gente senza tatto, che non capisce il mio, IL NOSTRO dolore. Gente che con articoli a caso pretende di spiegare a me, A NOI, cosa sia il rock, cosa sia l’origine del rock, cosa sia il metal, chi sia Ozzy, da dove venga, cosa significhi, chi sia e chi sia stato. Cose che non possono essere spiegate, cose che possono solo essere intimamente percepite e assorbite nel profondo.

Ma resisto anche alle tentazioni. Anzi, resisto pure alle provocazioni, agli attacchi frontali, alle offese personali.

Poi, però, crepa un altro mito… ed allora eccomi qui. Anche io finisco per scrivere di Ozzy e della sua dipartita, espandendo un po’ la gamma tematica, uscendo dal coro, andando contro corrente, confermando forse di voler essere una pecora nera in un mondo ridotto a gregge di pecore bianche che seguono un qualsiasi pastore a loro imposto dalle masse. Eccomi qui, un po’ come faceva Ozzy, a mostrare quel dito medio ormai ridotto a patetico stereotipo.

Ozzy è morto. Chi era? Un alcolizzato, incapace di cantare. Stonato. Incapace di comporre musica, tanto che -crediti a parte- sono sempre stati i musicisti attorno a lui a scrivere musiche grandiose e testi tanto profondi quanto dissacranti. Un clown guidato dalla moglie, la quale lo ha infilato su tutti i palcoscenici, compresi i vari Ozzfest e Back to the Beginning, una imprenditrice geniale che ha reso il marito più mito di quello che già era, mungendone ogni singola goccia, trasformando il tutto in dollari… cosa che ammiro con devozione, sia per il profitto che per aver mantenuto in vita Ozzy per tanti anni dopo la dipartita dai Black Sabbath.

Chi era dunque Ozzy? Un interprete. Una cavia. Un devastato che invece di finire sul marciapiede in overdose è stato spinto sulla cresta dell’onda, diventando idolo, diventando Dio, diventando esempio di ribellione, di devastazione, di affermazione. Un poveraccio che improvvisamente è leader: il sogno assoluto, l’essenza della speranza, di quel pensiero che recita ‘ce la posso fare pure io’, dietro la consapevolezza che ormai il destino è quello, crudele e privo di opportunità.

Ozzy era un artista? Non credo. Sapeva a malapena cantare. Però era un attore pazzesco, l’interprete della sua stessa deviazione, diventata mito, riferimento, esempio di fuoriuscita da un tunnel che emege dalle tenebre per condurre all’oscurità del tunnel successivo. Ed è per questo che era un mito. Ed è per questo che lo stiamo piangendo: lui era la cavia di un maestoso esperimento di laboratorio sociale, la cavia ribelle, la cavia fuggita dalla gabbia, il fuggitivo che finisce per vivere una vita al limite piuttosto che nascondersi nel silenzio e dell’anonimato della normalità.

Ozzy è stato il nostro capro espiatorio. È stato il nostro esempio. Il nostro obiettivo impossibile. È stato il condannato al rogo che l’intero popolo vuol veder bruciare. È stato il miracolato che da quel rogo è uscito indenne, ricordando a tuti che c’è (forse) sempre una seconda chance.

Ma prima di Ozzy ce ne sono stati altri. Hendrix tra questi. Lemmy in primis. Lui si che era un artista. La sua dichiarata vita sregolata era impostata esclusivamente per far colpo sul genere femminile, ragione primaria che diede inizio al suo percorso musicale. Le droghe? Se per Ozzy erano l’amore, per Lemmy erano un supporto, un viagra mentale, un acceleratore fisico e cerebrale tale da materializzare notti insonni, sesso sfrenato e testi semplicemente immensi. Lemmy non era il clown che forse stava alla radice della personalità di Ozzy: Lemmy era genio puro, genio deviato, un genio che vedeva la devastazione come accessorio necessario piuttosto che elemento deviante.

E poi muore pure Hulk Hogan. ‘chi se ne fotte’, urleranno tutti quelli che giustamente puntano il dito contro la deviazione socio-politica di un altro clown chiamato Trump. Ma Hulk era un personaggio. Era l’attore di uno show per buoni e cattivi, con buoni buonissimi e cattivi cattivissimi… con una moralità di qualche tipo dispersa tra le corde del ring, comunque spalmata sul copione di uno sport che non era proprio uno sport, di una specie di reality show (preistorico) il quale non era proprio un reality show.

Chi ha già superato i dieci lustri a spasso per questa piccola sfera dispersa nel cosmo, non vede un Hulk Hogan di destra (o quello che è…. dopo tutto il Wrestling è sempre stato la sintesi dell’essere americano radicale, V8 & RFA). Vede quel tizio super muscoloso, sorridente ma arrabbiato, quasi l’elemento mancante dei Manowar. Un tizio che per show-business mostrava muscoli e si atteggiava a eroe benevolo contro avversari cattivissimi e super mascherati. Un po’ la storia del mondo, la fortuna di qualsivoglia storia della Marvel, ma in carne (tanta carne) ed ossa!

Cazzo, sono cresciuto a nutella e ‘Uomo Tigre’. E Hulk era la sintesi reale di quello sport così lontano dallo sport europeo, quello spettacolo così assurdamente falso ma dannatamente attraente ed originale.

Ecco allora che tutto torna: Ozzy era il nostro Hulk musicale.

E Lemmy era forse il cattivo che sfidava Hulk, perdendo spesso ma iniettando sangue velenoso nelle vene della società, tanto da far scatenare nuovi incontri, nuovi massacri da ring, nuove sfide… nuove rocambolesche vittorie e nuove distruttive sconfitte. Con Ozzy che rimaneva l’avversario da affrontare, quello imbattibile, l’avversario mitologico per sfidanti altrettanto mitologici.

Prima e poi vennero tanti altri. Robbin Crosby. Kurt Cobain. Randy Castillo. Bon Scott. John Bonham. Ronnie James Dio. Jim Morrison. Janis Joplin. Amy Winehouse. Brian Jones… per citare i ‘più famosi’.

E questo senza contare quelli che sono riusciti a sopravvivere a loro stessi, Nikky Sixx in primis.

Senza poi dimenticare miti più orientati alle masse, Freddy Mercury tra tuti.

È morto Ozzy.

È morto Lemmy.

È morto Hulk.

Sono morti in molti.

E ne moriranno altri.

Speriamo solo di poterlo raccontare. O forse no.

Ma ovviamente stanno morendo tutti. L’età non risparmia. Rolling Stones. Deep Purple. AC/DC. Se ne andranno tutti… e statisticamente prima di noi quarantenni, cinquantenni, sessantenni…

Penso a mio padre. Ai suoi amici, i quali sono sempre meno. Succederà anche a me? O sarò io uno di quelli che mancheranno all’appello? Non lo so. Ma ho riflettuto spesso su questo argomento: la vita prosegue, semina cose, lascia indietro altre cose; oggi ci siamo tutti, domani mancherà qualcuno… dopodomani magari rimarrò solo io… tanto che non capirò se si tratterà di fortuna o di dannazione, per il fatto di ritrovarmi tutto solo, senza amici della mia generazione della mia epoca, e pure senza modelli, senza idoli, senza quei simboli che hanno scolpito le guide linea della mia vita.

C’era Lemmy, e alimentava una fiamma. Poi se ne è andato.

C’era Ozzy. Era una certezza…. malato e autodistruttivo… ma ancora impavidamente sul palco.

C’erano poi tanti altri, che ora non ci sono più. Che domani non ci saranno più.

C’era pure questo energumeno chiamato Hulk Hogan, immagine di arroganza e forza bruta: non so cosa facesse nei tempi moderni, ma era una forma di sicurezza sapere che quel personaggio esuberante, tanto vero quanto costruito, era ancora li pronto a prendere a pugni il prossimo cattivone.

E domani? Chi perderemo? Ve ne andrete voi? O forse ‘perderete me’, uno in meno che si siede a parlare di dischi improbabili e di chi ormai non c’è più?

Ozzy non sapeva cantare. Era un clown.

Lemmy era un artista, ma come uomo era discutibile… chiedete a suo figlio.

Hulk? Tanti muscoli e poco cervello, infatti era sostenitore di Trump.

Personaggi creati dai mass media e dagli stessi spinti ai limiti.

Eppure, diamine, questa gente ci manca. Manca la loro luce… il loro punto di riferimento, sia esso da seguire o da evitare come la peste.

Manca chi li sostituirà. Manca il ricambio generazionale, davvero, non ci sono dei sostituti, non ci sono nuovi ribelli, nuovi idoli, nuovo cattivi esempi che propongono un ipotesi di vita diversa da quella monotona ed apatica di ogni giorno.

Esattamente come quando in terza età sei tu ad avere la sfortuna di campare, mentre gli amici con i quali hai condiviso una vita se ne vanno, uno alla volta, finendo lentamente e drammaticamente sotto due metri di terra.

Cosa resta?

L’esperienza.

La sapienza.

L’onore.

La Passione!

La storia da raccontare a un pubblico che forse non ti ascolta.

Eravamo i ribelli. Gli emarginati. Quelli col dito medio sempre pronto.

Ma non rimarrò nulla, anche perché sembra siamo già solo una categoria merceologica.

I tempi sono cambiati. Facciamocene una ragione.

Ozzy, Lemmy e Hulk saranno dimenticati pure dai libri, tra 50 o 100 anni.

Ciò che rimane, che rimarrà, è una sola cosa: la solitudine. Una terribile solitudine che verrà rimpiazzata solo dal prossimo livello, quello che io chiamo “l’oblio definitivo”.

Addio ‘ragazzi’, grazie per esserci stati: ci avete fatto pensare e divertire in questa vita!

(Luca Zakk)