C’è chi dice che i The Prodigy abbiano cessato di esistere con la morte di Keith Flint nel 2019. In un certo senso è anche vero, visto che l’ultimo album in studio, “No Tourists”, uscì l’anno prima, nel 2018, con il tour a supporto del disco poi interrotto per ovvi motivi. E poi? I tempi cambiano, le mode cambiano e la musica elettronica dei Prodigy appartiene ad un’epoca, gli anni ’90… e forse anche un po’ oltre visto che il loro disco del 2009, “Invaders Must Die”, fu un altro grande successo.
Ma, come succede per molti artisti, i Prodigy emersero in una epoca, impattarono e segnarono tale epoca, attirando orde di fans di quella stesa epoca. Poi è venuto altro.
E oggi? Hanno ancora senso i Prodigy, dopo 35 anni, senza Flint?
A giudicare dalla quantità di gente arrivata all’AMA Music Festival di Villa Negri di Romano d’Ezzelino (VI), i Prodigy sono ancora un portento, anche perché il pubblico non era rappresentato solo da chi era giovane negli anni ’90 (come il sottoscritto), ma da un varietà anagraficamente vasta, eterogenea, la quale spaziava dai teenagers alle persone che potrebbero essere i genitori (in certi casi lo erano), quando non i nonni, di questi ragazzi.
L’atmosfera all’AMA è festosa. Non solo i tre DJ set tosti -Emma, Nina Kraviz e Samuel- sicuramente in linea con l’acidità vibrante del sound degli headliners, sono in grado di scaldare ed eccitare il pubblico… ma tutto il contorno è grandioso: dagli stand gastronomici, a quelli per bibite (birre, vino e pure l’iconico e super indigeno Mezzo&Mezzo), da quelli dei market, fino alle associazioni, tra volontariato e organizzazioni non governative, spingendosi fino a giochi da luna park, senza dimenticare figuranti come gli abilissimi trampolieri, il tutto per creare una sensazione di festa, di estate, di divertimento, di svago, un posto nel quale non c’è solo il palco con i concerti, piuttosto un’area dove sentirsi liberi, dove socializzare, dove lasciarsi andare o semplicemente disconnettersi dalla routine quotidiana.
L’organizzazione, anche in questa nuova bellissima area, è impeccabile (dagli accessi, alla gestione dei token, fino all’equa distribuzione sull’area di punti ristoro/bevande o servizi igenici), componente essenziale per rendere ancor più immediato quel senso di appartenenza, quel sentirsi a casa, quell’esperienza avvolgente.
E Poi sono saliti sul palco i Prodigy.
E si è scatenata l’orgia sonora alla quale ci hanno da sempre abituato, un’assalto sonico al quale tuttavia non ci si può davvero abituare, restandone ogni volta -come se fosse la prima- travolti in modo letale.
Liam è nascosto dietro le sue diavolerie elettroniche, Leo Crabtree dietro le pelli mentre il chitarrista Rob Holliday domina il palco regalando quell’atteggiamento ‘metal’ che alla band non manca… tanto che tra il pubblico gli appassionati di heavy metal non mancavano affatto, anzi.
È Maxim che prende il controllo. Il vocalist e performer è in perfetta forma, con il suo abbigliamento e look che lo colloca tra un viaggiatore cosmico e un re guerriero dell’antico Egitto.
Corre Maxim. Salta Maxim. Incita una folla, la quale non fa assolutamente nulla per resistergli. Ad un certo punto si scatena l’inferno nell’area pit: è Maxim inseguito dall’entourage preoccupato per la sua incolumità, che scende dal palco e corre tra il pubblico.
È il delirio.
E Flint? L’esecuzione di “Firestarter” regala la risposta: Maxim resta fermo, minaccioso, tra luci impazzite ed ombre minacciose, braccia conserte. Sugli schermi i laser disegnano l’inconfondibile sagoma del volto di Flint, un Flint che scatena energia e potenza, esattamente come faceva sui palcoscenici o in sella alle sue moto negli autodromi. È il tributo. È il ricordo. È connessione con un Flint digitale… quasi una trasposizione elettronica della sua essenza ormai non più appartenente al mondo terreno.
Non mancano i classici “Breathe” o “Smack My Bitch Up” e nemmeno le iconiche “Invaders Must Die” o “Omen”, oppure quella profetica “We Live Forever”, dall’ultimo album pubblicato, uno degli ultimi brani con Flint, seguita da una frizzante “Out of Space”, dal loro primo album, un brano che con il suo jingle conduce alla fine dello spettacolo, a fine della serata, verso la fine della magia del momento… anche quell’eco supersonico, coccolato dal tuono, anche se quella sensazione di corrente elettrostatica persistente rimane, un po’ alimentata da un cielo minaccioso, temporalesco, il quale, per questa volta, è stato clemente.
(Luca Zakk)