Il 22 agosto 2025 è stato un giorno che ha inciso la sua lama nell’anima di chi c’era.
C’è un punto, tra la strada e il mare, dove la musica si è trasformata in qualcosa di immensamente più grande: un parco nascosto, avvolto dal caldo feroce d’agosto e dalla vegetazione che costeggia la pista ciclabile, ha dato vita al Wondergate Festival. Terza edizione ufficiale, ma la prima che, per caratura delle band e intensità dell’esperienza, può essere considerata la sua vera consacrazione.
Sul litorale marchigiano, una terra non certo abituata a ospitare eventi di questo peso, il Wondergate quest’anno ha aperto un nuovo varco, dimostrando che anche lì il metallo può risuonare con tutta la sua potenza. Eravamo poche centinaia di anime quel venerdì, tutte unite dallo stesso culto: quello dei Primordial e dei Katatonia, headliner di una serata che non aveva bisogno di folle oceaniche per essere immensa. Bastava il silenzio carico di attesa, il brulicare di fan con maglie nere, i volti segnati dall’emozione e quel vento salato che arrivava dal mare solo per ricordarci dove eravamo, prima di perderci tra le note e lo spettacolo di colori.
Le locandine dell’evento, in prossimità del Parco dei Due Ponti, affiancate a quelle di qualche sagra locale, ci hanno strappato più di una risata: un contrasto quasi surreale tra metal e pesce fritto.
In quel primo pomeriggio abbiamo atteso in fila di fronte al cancello, sotto il sole cocente, mentre il parco lentamente prendeva vita. L’ingresso è arrivato con un’ora di ritardo, e il caldo era ancora feroce quando, finalmente dentro, ci siamo ritrovati davanti a un palco grandissimo, inaspettatamente possente, imponente nel suo silenzio carico di promesse.
Le birre e lo street food costavano quanto nei grandi festival, e diversi hanno storto il naso, ma in fondo nessuno era lì per quello. Eravamo assetati di tutt’altro: dell’attimo in cui le luci si sarebbero accese, del primo ruggito dalle casse e della scarica elettrica che solo le nostre band preferite ci avrebbero saputo dare.
Alle 18:55 hanno finalmente aperto le danze gli Inner Vitriol: una vera sorpresa.
Impatto, presenza, tecnica e un’intensità rara per una band d’apertura. Tra i membri figurano i gestori dell’Alchemica Club di Bologna, uno dei templi dell’underground italiano. Hanno catturato l’attenzione di tutti, culminando in una cover spiazzante e splendida di “Impressioni di Settembre”, che ha trasformato l’aria in qualcosa di quasi mistico.
Unico rammarico: averli visti come band d’apertura. Meritavano una collocazione più centrale, perché il loro livello — già riconosciuto dopo l’esibizione al Redentore di Venezia in apertura a Geoff Tate — è decisamente alto e in ascesa.
A seguire, gli Ashen Fields, tra i portabandiera del symphonic metal italiano. Un set pulito e curato, apprezzatissimo dagli amanti del genere, forse meno da chi era ancora stregato dalla scarica emotiva lasciata dagli Inner Vitriol.
Verso le 20:35 è stato il turno dei Butt Splitters, che hanno portato sul palco una scenografia suggestiva con fondali di boschi, ma un contrasto curioso tra nome e proposta musicale.
La cattiveria promessa dal nome non trovava pieno riscontro nel sound, più morbido e ricercato, ma la band ha mostrato ottimi margini di crescita, complice la loro costanza nei festival estivi, come il Frantic Fest.
E poi, quando il sole è calato e l’aria ha cominciato a cambiare, sono arrivati i Primordial, mostri sacri del pagan/black-folk metal.
Alan Averill era in forma smagliante: potente, magnetico, con il suo trucco rituale e quella voce che è ancora un urlo antico, una preghiera e una condanna insieme.
Il set è stato intenso, feroce, ma purtroppo alcuni disguidi fonici hanno penalizzato la resa complessiva, soprattutto per chi li aveva già visti in passato e conosceva la loro consueta forza sonora dal vivo. Anche con qualche problema di suono, Averill è riuscito a tenere il pubblico in pugno: carismatico e teatrale com’è, ha guidato la band con la solennità tipica dei Primordial, trasformando ogni brano in un inno di fiamme e memoria.
Quando gli irlandesi hanno lasciato il palco, nell’aria aleggiava un silenzio teso. Tutti sapevamo cosa stava per accadere. Poi le luci si sono abbassate, il pubblico si è stretto in avanti e, tra le ombre viola e blu, è comparso il nome che io probabilmente più di altri aspettavo da una vita: Katatonia.
Da lì in poi, il tempo ha smesso di avere senso.
Il set è stato un viaggio perfetto tra passato e presente, un intreccio di vecchie ferite e nuove rinascite: “Thrice”, “Soil’s Song”, “Lethean”, “Opaline”, “Dead Letters”, “Lilac”, “Criminals”, “Old Heart Falls”, “July”, “Birds”, “Wind of No Change”, “My Twin” e “Forsaker”.
Un paio di brani tratti dall’ultimo album si sono fusi naturalmente con le hit storiche, eseguite alla perfezione da Jonas Renkse — una garanzia assoluta tra le voci maschili del metal. Un cantante che ho sempre reputato strepitoso e che, dal vivo, mi ha letteralmente travolta.
Mi tremano le dita mentre cerco di raccontarvi quegli istanti.
La luce era fortissima, tagliente, quasi a voler attraversare la pelle. Mancavano solo dei corvi reali. Come noi ci sentivamo avvolti dal tepore dell’esibizione, anche Jonas, inizialmente timido e raccolto nella sua consueta compostezza, si è progressivamente sciolto. Tra un brano e l’altro ha sorriso, ha fatto qualche battuta e ha lasciato trapelare, finalmente e apertamente, la sua gioia di essere in Italia, grato per l’affetto che gli esplodeva davanti.
Non c’era un solo corpo fermo. Tutti, ma davvero TUTTI, abbiamo cantato, abbracciati tra amici e sconosciuti, con la voce rotta, le lacrime che tagliavano il viso e la consapevolezza che quel momento non si sarebbe ripetuto. È stata una comunione di emozioni, un dolore condiviso che diventava bellezza, un’energia calda sotto un cielo che si tingeva di viola e di suono. Nulla di “strano”, alla fine, se parliamo dei Katatonia, maestri del doom/gothic/prog malinconico per antonomasia; eppure, quella sera, c’era qualcosa di diverso.
Il fatto che fossimo poche centinaia appena ha reso tutto più intimo, più autentico.
Potevamo avvicinarci al palco, vederli in volto, sentire i respiri, le corde che vibravano, il battito del rullante come un pugno al petto. Il batterista, preciso e pungente, ha dato alla serata un cuore pulsante, capace di sollevare ogni brano oltre la sua stessa malinconia.
A detta dei miei amici del paese, «ha menato».
Il sound complessivo è stato impeccabile: pulito, profondo, avvolgente. Ogni nota era un colpo dritto e calibrato, come se la band avesse deciso di restituirci tutto ciò che avevamo atteso per anni. Nonostante il legame affettivo fortissimo, è impossibile negarlo: è stata la migliore esibizione della serata.
La nuova formazione, con il chitarrista fisso e quello turnista, ha funzionato alla perfezione: nessuna incertezza né sbavatura, solo passione, tecnica e una forte coesione. Le luci viola, dense e ipnotiche, li hanno incorniciati come fantasmi splendenti: una visione sospesa tra sogno e concretezza. Io non riuscivo a smettere di piangere.
Li guardavo e sentivo che ogni anno di distanza, ogni mancato concerto, ogni volta che li avevo ascoltati da sola nella mia cameretta buia trovava finalmente un senso. È e rimarrà il mio gruppo preferito di sempre. Intorno a me, decine di altre persone piangevano allo stesso modo, cantando come se la voce fosse la nostra unica ancora di salvezza. Non era solo musica. Era un ritorno a casa, dentro sé stessi. A esibizione terminata, non c’è stato bisogno di parole: solo applausi, occhi lucidi e un silenzio che valeva più di mille grida.
Il Wondergate Festival, in quel momento, ha mantenuto la sua promessa: aprire un varco. Non verso un luogo, ma verso un’emozione. E quella sera, siamo passati tutti dall’altra parte. L’evento ha dimostrato che la scena metal italiana può ancora offrire appuntamenti capaci di unire qualità, passione e cura organizzativa in un’unica cornice. È stata molto più di una semplice data estiva: un piccolo miracolo costruito da poche, instancabili mani.
Lo staff, davvero ridotto ma determinato, è riuscito a dare vita a qualcosa di grande, curato e sentito. La passione può decisamente bastare quando la volontà brucia più forte del sole d’agosto. Certo, il caldo, i piccoli ritardi e le birre da prezzo europeo non sono passati inosservati, ma di fronte a una line-up così e a un’atmosfera tanto sincera, tutto questo si è dissolto come polvere nell’aria.
Nei giorni successivi, il festival ha continuato a vibrare di metal e adrenalina, ospitando nomi del calibro di Sonata Arctica, Stratovarius, Rhapsody of Fire e Tarja Turunen. Un successo pieno, che lascia presagire un ritorno ancora più potente nel 2026.
E non solo: gli organizzatori hanno da poco annunciato un’edizione indoor invernale a Milano, con una line-up ancora da svelare ma che, se manterrà la stessa anima, farà parlare a lungo di sé.
Bravi… e grazie, veramente.
Un ringraziamento speciale va a Sergio dello staff, nonché batterista degli Scala Mercalli, che con la sua disponibilità e gentilezza ha reso possibile uno dei momenti più intensi della mia vita. È grazie a lui che, a fine serata, io e il mio compagno fotografo abbiamo potuto incontrare i Katatonia, scambiare qualche parola e condividere un frammento di umanità vera dietro l’aura dei propri idoli.
Non solo hanno lasciato gli autografi e scattato qualche foto, ma si sono anche complimentati per la vecchia maglia che indossavo, riconoscendone il valore affettivo e dimostrando una simpatia genuina, in totale contrasto con lo stereotipo degli scandinavi come freddi e distanti.
(Aleksandra Katarina Klepic)