(Les Acteurs de l’Ombre Productions) Dark doomster francesi che arrivano al settimo album, diviso in sette tracce, di sette minuti ciascuna, tutte suonate da sette musicisti. Se vi sembra una ovvia ed abusata cabala o citazione biblica vi sbagliate, in quanto i Monolithe ci hanno abituato a numeri precisi o a scelte metriche originali e personali. I primi tre album contenevano una sola canzone, sempre di durata maggiore di cinquanta minuti (uno è questo). Poi un’evoluzione li portò a ben due album con tre tracce da quindici minuti esatti ciascuna, per poi passare a questo impressionante “Nebula Septem”, il primo con questa altrettanto stravagante e distintiva etichetta francese. L’album è coinvolgente, dinamico, melodico. Oscuro come un vero album doom, ma anche oscuro come una prelibata espressione dark. L’idea è originale, cinica e continua a schiaffeggiare l’ascoltatore con un doom pesante che all’improvviso è melodia pura spaziante dai vecchi Paradise Lost fino a divagazioni quasi sinfoniche in un contesto teatrale a tratti epico. Ma non manca nemmeno una palese divagazione dark wave, in un costante assaggio di strade nuove, senza mai sceglierne una… ma anche senza mai completamente negarla. È un equilibrio intelligente e molto mirato quello dei Monolithe, tanto che questi quarantanove minuti risultano avvincenti, attraenti e maledettamente magnetici. “Anechoic Aberration” apre tra il tagliente ed il trionfale e si evolve con cadenza, potenza e pure riff che ricordano un death metal incisivo e d’autore. Mid tempo ossessivo con “Burst In The Event Horizon”, sottoposto a linee di keys suggestive, mentre il vocalist growl distrugge ed annienta senza segni di pietà. Più introversa e cupa “Coil Shaped Volutions”. Pesante e immensamente gotica “Delta Scuti”, un brano che ha una evoluzione melodica strana, tanto da diventare sempre più oscuro con il passare dei (sette) minuti. Suprema “Engineering The Rip”, canzone con arrangiamenti sinfonici intensi i quali portano il feeling nei paraggi dei recenti Samael. Progressiva e provocante “Fathom The Deep”, mentre la conclusiva strumentale “Gravity Flood” conferma ed esalta il filone darkwave intrinseco nella musica di questa band, ben mescolato con melodia, idee progressive ed elettronica. Album pieno di intensità. Non c’è un solo istante di cedimento. I brani lunghi non sono ripetitivi nonostante siano molto ben identificabili dal primo all’ultimo secondo. Composizione intelligente, produzione ottimale, confezionamento geniale. Una porta aperta verso un nuovo genere, pur rimanendo fedele a tantissimi altri generi precedenti, alla tradizione, alle radici.

(Luca Zakk) Voto: 9/10