(Neverheard Distro) Quante band al mondo si chiamano Witchcraft? A decine almeno, ma questa è quella ungherese e suona black metal di quello ruvido, glaciale, dozzinale, raw, pagano e oscuro. Registrazioni ai limiti della decenza, chitarre fredde, scheletriche e che menano a ripetizione lo stesso riff. La batteria con il rullante che ha un suono, la cassa un altro e i piatti un altro ancora. Il basso si percepisce e la voce è un infernale scream proveniente da una belva che alberga in qualche bosco innevato. “Magittam a Vèrt” ha una pausa centrale in low tempo alla Darkthrone e una ripartenza con un riffing alla Euronymous. A pensarci bene però qui non conviene lanciarsi in paragoni o esempi citando altri, perché l’old style che pervade il songwriting e il sound dei Witchcraft è totale e diffuso. “Hegyek Felettem” è una roccaforte di ostilità nella quale qualsiasi devoto del black metal potrebbe recarsi in pellegrinaggio. Lugubre e fenomenale l’assolo in solitaria di “Arcomon Gyulölettel”, una esemplare gemma nera improvvisa. I brani sono questo: un paio di tipologie di riff lanciati a mille, una fase centrale epica o in caduta libera alla Darkthrone e ripartenza assassina, sullo stile di quanto era già stato udito. L’andamento delle canzoni è quello. Non mancano piccoli episodi particolari, qualche assolo melodico e sulfureo oppure slayeriano, qualche eccentricità vocale, tutto comunque in linea con la tradizione black metal della terra dei fiordi dei primi anni ’90. Un sound scarno e pagano, buono forse per gli appassionati delle note prodotte nelle lande selvagge e buie del black metal. Un sound non originale, ma costruito con la tipica oscurità mentale e stilistica che il genere richiede. Black metal ortodosso e niente altro. Per la prima volta la band usa l’idioma nazionale e non l’inglese. L’album viene pubblicato in CD, vinile e cassetta e rispettivamente in 1000, 300 e 111 pezzi totali.

(Alberto Vitale) Voto: 6,5/10