copAgalloch(Eisenwald Tonschmiede) Crudele armonia. Il quinto album degli americani Agalloch è una brutale, crudele, perversa armonia… un’armonia che si costruisce sulla loro consueta varietà di influenze, capaci di attrarre verso il metal un’ampio ventaglio di sonorità -folk ed alternative comprese- dando origine ad un sound coinvolgente, pieno di melodia, pieno di forza, pieno di sostanza. La loro impostazione alternativa, diversa da tutto, riesce tuttavia a coinvolgere direttamente, senza per forza percorrere sentieri complessi, di difficile ascolto: “The Serpent &The Sphere” racchiude una intensa complessità, ma risulta immediatamente godibile, impattante, totalmente espressivo. E’ proprio l’espressività la caratteristica dominante di questo disco, quell’espressività che rende ogni singolo accordo, ogni singola nota un qualcosa di identificativo, di personale, di emozionalmente appagante. La opener “Birth and Death of the Pillars of Creation” è colossale: oltre dieci minuti per proiettare l’ascoltatore nel sound sempre in evoluzione della band. Atmosfera, violenza, distorsione, chitarre acustiche. Una piccola opera dentro l’opera. Ancora chitarra acustica nell’intermezzo (comunque oltre i tre minuti) “(Cerpens Caput)”: armonia… la mente divaga, le emozioni si intensificano, prima della stupenda “The Astral Dialogue”, un pezzo epico, che ricorda il melodic death scandinavo, con accenni di ottimo riffing prettamente black. Il vocalist ha una voce estrema, crudele e riesce a creare uno stato di ansia mentre le chitarre tessono complesse textures che ricordano i mitici Death da “Human” in poi. “Dark Matter Gods” è più riflessiva, offre vari momenti dove la violenza non è musicale ma espressiva, anche grazie a riffing rock e progressive rock, sovrastati dal growl feroce del singer. Dinamismo coinvolgente, sempre in un crescendo entusiasmante con “Celestial Effigy”, mentre “Vales Beyond Dimension” offre una atmosfera inquietante caratterizzata da un riffing decadente ma poderoso, con una parte centrale isterica, nervosa, accentuata da blast beast e singing ancor più estremo. “Plateau of the Ages” è l’altro immenso capolavoro contenuto in questo disco; ben oltre dodici minuti di progressione, di evoluzione, di materia prima musicale composta, arrangiata e suonata con sublime maestria. Mai estrema e sempre caratterizzata da una visione superiore, quasi spaziale, del sound, questa traccia strumentale dimostra le illimitate capacità della band, evidenziando il lato poetico, il lato quasi cinematografico nel sollecitare emozioni e fantasie. Un album molto difficile da descrivere, anche da classificare. Durante l’ascolto sembra tutto chiaro, sembra che l’album sia quasi un qualcosa di facile, ai limiti del catchy, con un turbinio di sensazioni completamente impazzito. Alla fine del disco, però, rimane una specie di ferita. Scompare tutto, la memoria si disintegra, le melodie catchy sono scomparse: rimane solo una desiderio intimo, carnale -quasi una crisi di astinenza- e diventa subito necessario un ulteriore ascolto, dove succede tutto di nuovo. E questo sembra essere un ciclo assurdamente infinito.

(Luca Zakk) Voto: 9/10