(BMG) I miei colleghi certo si stupiranno di un’analisi così lunga e particolareggiata di un disco da parte del sottoscritto, ma la ragione è ovvia. Un album degli A Perfect Circle, specie se arriva a quindici anni dall’ultimo studio di inediti, è un evento. E le speranze che una persona ripone in quindici anni di attesa son davvero tante, per la verità troppe. Ci ho messo circa sette ascolti per capire un po’ questo “Eat The Elephant” per giungere alla conclusione che il viaggio mediatico regalatomi da Maynard è soci è valso ogni singolo giorno di attesa. Un cd tanto immediato quanto emblematico, la cui soave atmosfera si percepisce man mano che gli ascolti aumentano, andando a creare la sconcertante sensazione di non aver capito niente dell’album dopo un singolo ascolto. La title track di apertura funge quasi da intro all’opera, una voce ammaliante e criptica come quella di Maynard non lascia scampo ad alcun dubbio: ogni verso un enigma, ogni strofa un sonetto, ogni traccia una poesia. I tempi risultano fin da subito più dilatati, positivi e armonici rispetto i lavori precedenti, costante che accompagnerà tutto l’album. Una sorta di aura zen di pace e tranquillità che accalappia l’ascoltatore e non gli lascia modo di spegnere lo stereo. La traccia sfuma in fading per accompagnare a “Disillusioned”, uno dei singoli proposti prima dell’uscita del disco. Una canzone evocativa, eppure contorta, dove chi ascolta comincia a dubitare di stare ascoltando singole canzoni e non un concept. Niente di commerciale, eppure mai così immediato se si pensa alla carriera dei nostri. “The Contrarian” è uno dei pochi punti di continuità stretta con la produzione passata degli americani, comunque evocativa ed emozionale nel suo incedere ritmato ed atmosferico. Si passa poi a “The Doomed”, una delle migliori canzoni non solo dell’album ma della discografia del gruppo. Nefaste predizioni impongono una luce fioca e cupa in un disco i cui immaginifici contorni fanno diventare sempre più sfumato il confine tra bene e male. Da qui in avanti si intuisce come “Eat The Elephant” sia essenzialmente un disco rock, per quanto sperimentale. Probabilmente in quindici anni di silenzio la gente medita sulle cose e accumula cose su cose da dire. E gli A Perfect Circle dicono e dichiarano più in questa traccia che in tutte le loro composizioni messe assieme. Segue “So Long, and Thanks For All The Fish”, uno scanzonato omaggio alle molte morti illustri del panorama musicale e non avvenute negli ultimi anni, un tributo che si percepisce essere molto sentito dal cantante, che con voce commossa vuole salutare con un personale commiato queste entità. “Talk Talk”, altro singolo estratto prima dell’uscita del disco, riprende le atmosfere interrotte durante la precedente traccia riaprendo un dialogo intimo e profondo tra Maynard e l’ascoltatore, sempre ricco di riflessioni esistenziali e dubbi accennati e mai risolti. Con “By And Down The River” si chiude la prima parte dell’album, con una prova vocale superlativa di Maynard, capace di riaccendere la speranza per l’attesa nuova opera marchiata Tool. Probabilmente questo è il pezzo che più rappresenta l’album in tutte le sue dicotomie. La seconda parte del disco si diceva… “Delicious” segna una netta spaccatura con i brani precedenti: riff molto più pesanti, tempi più veloci e nel suo specifico dei testi azzeccatissimi. Il disegno, se vogliamo piue chiamarlo cerchio perfetto, è ormai chiaro. L’elefante nella stanza che da il titolo all’album è la metafora delle difficoltà impreviste, quelle in apparenza insormontabili, che con costanza e impegno possono essere affrontate un morso alla volta fino ad essere consumate. La successiva strumentale “DLB”, acronimo di ‘Dont’Look Back’ è stata colpevolmente tagliata a metà dallo spazio imposto dal vinile e apre all’ultima parte del disco, dove tutti i nodi vengono al pettine. “Hourglass” è acida, caustica e quasi stucchevole. Un nuovo cambio di direzione dove paradossalmente i brani che sembrano fornire delle soluzioni esistenziali sono le più amaramente folli e imprevedibili. Una delle migliori prove del cd. “Feathers” è quasi arrogante nel suo trattare l’ipocrisia della contemporaneità, ma ormai i nostri hanno delineato un disegno ben chiaro con il loro progetto, ossia proporre una cura esistenziale contro ogni genere di male che affligge il mondo moderno. Un solo di chitarra che ci riporta ai vecchi brani del gruppo ci introduce al capitolo conclusivo. “Get The Lead Out”, un augurio per chi ascolta e si ritiene colpito da forze esterne incontrollabili, una marcia sonora contorta e sibillina, strana quanto degna chiusura di un disco molto difficile da decifrare e forse proprio per questo tremendamente affascinante ed intrigante.

(Enrico Burzum Pauletto) Voto: 9,5/10