(Hellbones Records) Si poteva superare la grandiosità di “Ragnarok” (recensione qui)? Forse sì… e direi che “Second Chapter” ci è riuscito. Bloodshed Walhalla, l’unica vera viking metal band italiana (forse assieme ai Gjallarhorn, che però tacciono dal 2005, se sono ancora vivi…), ci regala un altro capitolo della sua epicissima, stentorea discografia; e anche in “Second Chapter”, come nel disco immediatamente precedente, i brani sono solo 4, ma il minutaggio sfiora l’ora e venti!! “Reaper”, potete non crederci, dura 28’20’’: si può dunque permettere una intro di 3 minuti (prima di synth bathoriani, poi anche di chitarre acustiche) che sfocia in una tirata viking molto orientata al black, ma sempre opportunamente dominata da keys antiche. Lentamente il brano si fa meno violento e più maestoso, cambiando passo ed epicizzandosi attorno al nono minuto: a quel punto, “Nordland” diventa il principale punto di riferimento, con tastiere forse in qualche passaggio anche ‘troppo trionfali’! Attorno al minuto 18 parte una sezione oserei dire folkeggiante (almeno nella cadenza) dove ritornano anche fraseggi black; a 23’ parte la sognante outro, che prima in acustico e poi in elettrico riprende il tema portante… che dire, da brividi, continuo a sostenere (lo farei anche in tribunale!) che Drakhen è l’unico, vero erede del Bathory epico – e soprattutto dell’ultimissimo Bathory – attualmente in circolazione! ‘Solo’ 16 minuti per “Hermòðr”, nella mitologia norrena il figlio di Odino che si fece intercessore per la morte di Baldr: la solennità del tema è qualcosa di fisico e palpabile, il brano è più uniforme ma questo non è un difetto, perché ne guadagna in solidità e compostezza; ancora da notare le keys che suonano, nei passaggi centrali del brano, quasi come trombe. Per “The Prey” Drakhen – ben sostenuto dai cori – sceglie uno stile canoro più aggressivo, e forse il riferimento principale si fa Falkenbach: il brano è mediamente veloce, la strofa sufficientemente ‘quadrata’ per essere epica… forse le tastiere dovevano essere un po’ più ‘maschie’ in qualche passaggio (soprattutto attorno ai minuti 8-10). È questo il brano più debole della tracklist, ma comunque di una potenza magniloquente che altri si sognano… e giungiamo così ai diciotto minuti di “After the End”, che arriva forse al massimo dell’epicità (cioè, sentite che avvio!), fa della ripetitività la propria forza (come del resto è caratteristico del viking originale) e, nei passaggi strumentali conclusivi, mi sembra riprendere “The Wheel of Sun”, l’ultima, immensa canzone che Quorthon ci ha lasciato. Prendetevi del tempo per ascoltare “Second Chapter”: un disco così non esiste nel panorama mondiale!

(René Urkus) Voto: 8/10