copcaronte(Lo-Fi Creatures) Autori già di un EP di cui si dice un gran bene, i parmensi Caronte approdano ad uno dei momenti più importanti nella vita di una band, il debut album. Le sonorità di questo quartetto di occultisti, per finta o per interesse, non importa, sono dedite al filone doom, espresso in maniera sulfurea e con un clima appunto occulto. Il basso è un vibrare pazzesco, denso e ammantato di notte fonda. Le chitarre sono sature, torve e dipingono litanie nere. Dorian Bones ha una voce che sembra un Ian Astbury in catalessi da eroina. La sua performance vocale è perfetta per il clima nero di questi sette pezzi, i quali mettono in mostra (come il lay out) un legame con Aleister Crowley e la sua dottrina, ma non solo. Il numero dei pezzi che compone “Ascension” è già probabilmente un riferimento al Mago. “Leviathan” tra riferimenti a figure dell’Apocalisse e della mitologia mesopotamica, espone un sound robusto ma sinuoso. Gli ultimi due minuti, degli otto totali, sono un lento decadere in sonorità noise. “Ode to Lucifer” ha un titolo che non sorprende e ad essere sincero nemmeno il brano, un doom lisergico e in parte southern abbastanza prevedibile. “Sons of Thelema” sorge con un ritmo solenne di Mike De Chirico, batteria, e da poi spazio ad un riff sepolcrale e sabbathiano molto spigliato. Il brano potrebbe essere un esempio di come i Darkthrone di oggi potrebbero suonare se decidessero di passare al doom/stoner. Il testo assembla principi e concetti thelemaici di Crowley, sorretti da una musica incantatrice. Il clima egizio e gli dei che lo popolano vengono rappresentati attraverso uno dei brani migliori, “Horus Eye”. Anche “Black Gold” possiede un riff talmente pesante da essere corrotto (di nuovo) da alcune assonanze con Fenriz e Nocturno Culto. Ovviamente c’è una similitudine melodica, ma l’impatto dei Caronte avviene attraverso una nube di zolfo ed effetti (fuzz, wah wah e cose del genere) che creano una vera orgia. “Solstice of Blood” è il brano più decadente e più tipicamente doom, oltre ad essere il più breve del lotto: meno di sei minuti, a differenza degli oltre otto e nove che si sentono in scaletta. Una vero lamento e forse questo è il secondo brano in totale che mi ha colpito di meno. “Navajo Calling” come già lascia intuire dal titolo, ha una pesantezza e un mood texano, southern. Una nenia cadenzata e una performance vocale di Dorian Bones ispirata. Termina l’ascolto. Nella testa ronzano i neuroni, solleticati dalla maestria delle corde di Tony Bones (chitarra) e Henry Bones (basso). “Ascension” propone un sound molto robusto, ma anche dalle andature talmente dilatate che rischiano di piacere solo ai cultori di queste sonorità. Tuttavia questa è una valutazione di tipo commerciale e poco valore ha per una band che alla fine è decisamente se stessa.

(Alberto Vitale) Voto: 7,5/10