(Season of Mist) Oscurità. Che provenga dalle fredde terre Canadesi o dalle gelide lande Svedesi, ovvero i due estremi delle origini internazionali di questo progetto, è l’oscurità la dominante assoluta. Un’oscurità sulfurea, asfissiante, soffocante, avvolgente e travolgente. Lo chiamano blackened doom o blackened industrial doom…ma quello che emerge da queste dieci tracce è un gelo siderale che penetra nelle vene, nelle carni, nei meandri della psiche più reconditi, destabilizzando, ferendo. Devastando. Una devastazione che sta alla base del terzo album della band, i cui membri hanno sofferto affrontando varie prove della vita (decessi, depressioni, malattie, crisi), una sofferenza che anziché venir soffocata o curata è diventata la linfa vitale di “Nous”. Con una spinta verso la sperimentazione e attraverso l’uso di doom, black, industrial e noise, il gruppo offre un’esperienza nichilista ricca di dissonanza, nella quale ogni brano è un passo avanti verso l’abisso, verso quella sofferenza che ha scatenato questa nuova ed invitante apertura verso un baratro senza fine. Concettualmente il disco continua a confrontarsi con il divino, mettendo in contrasto fede e percezione, obbedienza cieca e pensiero libero, un pensiero ribelle in grado di mettere in discussione quanto da altri professato come assoluta verità, cercando una deduzione logica per decodificare ciò che viene comunemente assunto come verità divina. Brani tetri, spesso lenti con suoni deviati supportati da una musicalità priva di luce, ritmi seducenti quanto ossessivi: “Opiate the Hounds” porta in qualche altra dimensione sconosciuta ai mortali, “Lowest Class” esala miasmi mortali incalzati da una ritmica pulsante, mentre “Lifers” cerca di spingersi oltre, ai confini tra suono, musica, rumore e caos… ancora una volta su un tappeto ritmico irresistibile. Barlumi di rituali dimenticati emergono sull’ipnotica “One Last Smoke”, misteriosa in tutta la sua contorta offerta l’ottima “Ankle Deep”, inospitale l’essenza post apocalittica di “Black Bird“. “Maze” è doom indissolubilmente legato agli inferi, i quali vengono divinamente descritti nell’atmosferica “Crown of Lies”, seguita dal noise di “The Grid”. Con tutta questa impostazione aliena, incompatibile con la vita, volutamente alterante, la band sceglie una cover per chiudere questo capolavoro di psiche corrotta: “Crush My Soul”, dei mitici Godflesh. Un album da ascoltare, riascoltare e poi ascoltare nuovamente. Dietro una copertina che raffigura le tentazioni di Sant’Antonio nel deserto, “Nous” contiene musica tutt’altro che facile ma capace di insinuarsi nella mente, passo dopo passo, suono dopo suono… musica capace di aprire verso nuove visioni, nuovi orizzonti, nuovi panorami violentati da un viaggio esistenziale disperato e brutale, lontano da Dio, dagli Dei, da ogni culto, da ogni superstizione. I Culted sbattono davanti all’ascoltatore la più cruda e feroce realtà… quella che è possibile vedere anche fuori dalla porta di casa… aprendo finalmente gli occhi.

(Luca Zakk) Voto: 9/10