(Apollon Records) A molti questa band potrà risultare sconosciuta, ma in realtà è in circolazione da tre decenni, con ben sette album pubblicati. L’ultimo di questi – quello qui in esame – porta un titolo ispirato al poeta, scrittore e drammaturgo gallese Dylan Thomas (1914-1953): una visione un po’ pessimistica, seppur ineluttabile, di ciò che è inevitabile, ovvero la fine, la morte. Eventi che alimentano una certa consapevolezza, soprattutto in un’età in cui abbiamo davanti più funerali che matrimoni. Certo, la morte ci aspetta, verrà per tutti noi; ma nella poesia di Thomas, come in questo disco, permane uno spirito combattivo e una tenace resistenza, la volontà di opporsi a ciò che non possiamo scongiurare. Così, secondo questo quintetto di Bergen, in Norvegia, tanto vale continuare a fare musica per celebrare la vita, indipendentemente da quanta ce ne rimanga… infischiandosene di tutto, ma arricchendo queste composizioni con una galassia di emozioni decadenti, cercando di beffare il destino ed esorcizzare ciò che ci attende lungo il cammino. Travolgente e incalzante “Repercussionist”, brillante “Hex”, intima “In the Hour of the Wolf”. “Rain’s C” è tanto oscura quanto futuristica; meravigliosamente vintage “Backtracked”, in contrasto con l’eterea ed esotica “The Canyon” (feat. Lindy-Fay Hella). “Holy Motors” è prepotentemente rock, quasi metal psichedelico, per non dire space rock (sì, certo, impossibile non pensare agli immortali Hawkwind). Ipnotica e misteriosa “Bête Noire”, prima della conclusiva “Beyond the Blue”, un brano tetro, quasi dark blues, teatrale, ambient, malinconicamente coinvolgente. Con la partecipazione di Lindy-Fay Hella (Wardruna) e Jørgen Træen (Golden Serenades, ex Slut Machine, anche tecnico in studio per Enslaved, Audrey Horne e molti altri), “The Dying of the Light” è musica potente e introspettiva. È musica curata nei dettagli, ma anche lasciata al libertinaggio dell’improvvisazione.
(Luca Zakk) Voto: 8,5/10
PS: Quella malinconia, a volte presente nella musica, a volte nelle intenzioni e comunque nel moniker, assume questa volta un senso più profondo: il disco è infatti dedicato a Per Harald Ottesen, bassista dei primi tempi, scomparso nel 2022.