(Sliptrick Records) Gli Ivory Times, prog/alt metal, giungono al terzo album. Anzi, mini album. Qui ci sono solo ventidue minuti di musica… dite che sono pochi? Se guardiamo con superficialità sicuramente sono poca roba. Ma con un po’ di voglia, con il desiderio di capire cosa hanno messo in piedi questi italiani, allora non bastano venti minuti. Ne servono almeno centoventi… esatto, sei ascolti… ma dieci (duecento minuti?) è la vera soglia per una minima comprensione decente di questo lavoro. Ma qual è la cosa tosta? Che ogni ascolto è sempre un piacere! Tuttavia l’inquadratura, la collocazione della band e del lavoro non sono facili… e per quelli come me, i quali osano scrivere divagazioni su ogni uscita discografica, allora è quanto mai obbligatorio pensarci bene prima di esibirsi con uscite sbagliate o totalmente fuori luogo. Il trio è musicalmente tecnico. Creativo. Ma è il concept album (questa è solo la prima parte, ragione che spiega la breve durata) il vero punto di forza, un concept che è una storia ma anche non, che è un punto di vista, ma anche non, una raccolta di spunti sull’umanità, l’attualità, la vita attuale… ma anche una sintesi autobiografica: una biografia delle origini della band, intese come essenza della loro terra, delle vicende che l’hanno caratterizzata o segnata. Qualsiasi sia il dettaglio evidenziato nelle varie fasi del racconto, tutto ricade sempre su concetti e sintesi perfettamente umane… tanto che, in modo complesso, criptico e metaforico, gli Ivory Times sono dannatamente rock… rock inteso come poesia di strada che racconta cose della strada… e poco importa se la strada è una striscia d’asfalto sul quale compiere un viaggio in motocicletta o se la strada è una dimensione spazio temporale dove le nostre vite si svolgono, si materializzano e si estinguono. Musicalmente la band è coinvolgente al massimo: i pezzi sono progressivi, ma ben studiati: lunghezze mai eccessive (tra i quattro ed i cinque minuti) che trattengono anche l’ascoltatore non tipicamente coinvolto nel genere, momenti catchy, idee variegate, totale mancanza di monotonia anche se l’intero album ruota intelligentemente attorno la stessa idea melodica di massima. Il vocalist (e bassista) ha un timbro caldo, sensuale, a tratti tuonante e variegato (“Falsehood”) a tratti dark (“Falsehood” e “Stranger Things), a tratti southern (“Hatred”)… vanta una capacità di modulazione molto ampia, anche se -come spesso accade per i frontman del nostro paese- la pronuncia inglese lascia un po’ a desiderare, dando quel senso ‘maccheronico’ -che io fatico a digerire- ad un album dall’impostazione marcatamente internazionale; comunque è veramente una goduria sentire questa voce nel crescendo e nei cambi su brani come“Falsehood”, tanto che il mio ‘problema di digestione’ viene notevolmente ridimensionato… quasi ignorato. Band complessa, intelligente, fantasiosa, tecnica, capace, grintosa. Ma la cosa che più emerge è una delineata identificativa originalità, la quale -oggigiorno- richiede coraggio artistico: merce costosa, pregiata e sempre più rara.

(Luca Zakk) Voto: 8/10