(Nuclear Blast Records) Indubbiamente i Khemmis sono tra le punte di diamante del doom americano, assieme a bands come Pallbearer e Spirit Adrift; alle porte del primo decennio di attività, eccoli con il quarto album, un possente e travolgente disco, ricco di atmosfere, di un doom tendenzialmente classico in grado di esplodere con rabbia, intensificando la pesantezza e lasciando libero sfogo alla seconda voce, a quel growl feroce, il quale spesso duetta con la dominante voce clean, andando poi ad invadere death metal, thrash metal e, non ultimo, metal più classico. Infatti, in un certo senso la musica dei Khemmis è il punto di congiunzione tra heavy metal e death metal, il tutto rivisto nella chiave apocalittica e decadente tipica di bands storiche quali i Candlemass. “Deceiver”, colui che inganna… simbolicamente la causa di uno stato d’animo comune che ci condanna giorno dopo giorno: la band stessa band descrive il concetto di base come quella sensazione che non ci fa sentire all’altezza della vita, con un metaforico paragone legato alla discesa dantesca verso l’Inferno, confermando la struggente oscurità che avvolge l’intero disco. Ma quello che inganna, quello che ci inganna, spesso risiede dentro noi stessi, ed ecco che emerge quella sofferenza derivante da patologie mentali ed il relativo percorso per affrontarle, per uscirne, per ritrovare il proprio io e la forza di andare avanti. Musicalmente la band crea una potente colonna sonora per queste emozioni: doom iper classico, aperture grandiose di matrice death svedese, divagazioni strumentali inquietanti, ricche di una chitarra che non si pone alcun limite stilistico. Domina un doom opprimente su “Avernal Gate”, più ricercata, vagamente progressiva e con una evoluzione di tendenza funeral doom su “House of Cadmus”. Doom ed evoluzioni quasi thrash con “Living Pyre”, pezzo con una chitarra solista intensa e linee vocali molto suggestive, capaci di portare alla mente i grandi nomi del genere, specie di origine finlandese. Ancora dualità tra doom e death con l’ottima “Shroud of Lethe”, molto heavy metal con “Obsidian Crown”, mentre un’atmosfera trionfale aleggia sulla conclusiva “The Astral Road”. Disco corposo, con brani molto lunghi: non un album facile, non un album di immediata fruibilità, un po’ per l’atmosfera volutamente destabilizzante, un po’ per quelle prorompenti svolte stilistiche molto ben incastrate ma potenzialmente capaci di destabilizzare l’ascoltatore.

(Luca Zakk) Voto: 7/10