(Napalm Records) Grande ritorno per K. K. Downing, ex chitarrista della metal band per antonomasia Judas Priest. Ricordo ancora un paio d’anni fa, all’indomani dell’ottimo debutto “Sermons Of The Sinner”, la valanga di critiche rivolte verso l’iconico axe man, colpevole secondo alcuni di riciclare sonorità ed immaginario appartenente ai Priest. Bene, vorrei ricordare a lor signori che non è stato Glenn Tipton, né tanto meno Rob Halford a fondare i Judas Priest, bensì Ian Hill e lo stesso K.K, il quale semplicemente porta avanti con grande coerenza quello stile che da sempre lo caratterizza. Quella coerenza che è mancata in passato ad Halford, quando di punto in bianco ha abbandonato pelle e borchie per conciarsi come il nonno di Eminem e scimmiottando i Pantera, per poi tentare di fare il verso a Marilyn Manson prima di tornare sui suoi passi come niente fosse per autoproclamarsi ‘Metal God’. Sono un grande fan dei Judas Priest, ma questo sfogo lo ritenevo necessario per rendere giustizia alla coerenza di un’artista che alla veneranda età di settantuno anni si presenta con una colata di metallo cromato e scintillante, caratterizzato da chitarre affilate come rasoi e da grandiose parti vocali ad opera dell’imprescindibile Tim ‘Ripper’ Owens, subito sugli scudi nell’opener “Sons Of The Sentinel”, con la voce che raggiunge picchi disumani, mentre le chitarre macinano riff velocissimi prima del ritornello cadenzato e spezza collo. “Strike Of The Viper” metterà ulteriormente a dura prova le vostre vertebre, grazie ad un mid tempo assassino sul quale non si può tenere ferma la testa. La velocità aumenta con “Reap The Whirlwind”, figlia diretta di brani come “Freewheel Burning” ed “Exciter”. Molto varia “One More Shot At Glory”, con un incedere alla “Hell Patrol”, prima del cambio di tempo repentino che trasforma il brano in una cavalcata incalzante ed epica. Epicità che si taglia con il coltello durante “Hymn 66”, tra partiture anthemiche, un riff epocale ed orchestrazioni. La title track poggia su una ritmica quadrata ed ottime armonizzazioni di chitarra, ma la parte del leone spetta nuovamente e Owens, autore di una prestazione da applausi. “Keeper Of The Graves” parte tetra ed oscura, tra arpeggi di chitarra ed una grande e sofferta interpretazione del singer statunitense, per poi dipanarsi tra ritmiche rocciose vagamente alla Manowar. “Pledge Your Souls” ha un’andatura bluesy, ovviamente metallizzato a dovere, mentre la conclusiva “Wash Away Your Sins”, dopo una lunga sezione acustica interrotta da un’esplosione di chitarre alla “Dissident Aggressor”, si assesta su una rocciosa ritmica sabbathiana. Un album sicuramente più maturo rispetto al debutto, con un Downing che, non avendo più nulla da dover dimostrare, cammina sul velluto tra sonorità che lui stesso ha contribuito a forgiare, con l’entusiasmo dell’esordiente e l’esperienza del veterano.

(Matteo Piotto) Voto: 9/10