(Inside Out Music) Ci hanno provato per ben due album i tedeschi a proiettarsi in una dimensione dove la propria musica avesse anche partiture vocali. Tre album come quartetto post rock strumentale i tedeschi di Münster, poi due lavori con due cantanti diversi e con il primo passato poi alle tastiere in “Trips”, l’album precedente a “Boundless”, per poi lasciare definitivamente la band. Prima di Marsen Fischer e Petter Carlsen, i Long Distance Calling avevano prestato il microfono solo per qualche canzone a pochissimi altri. Ad esempio John Bush, ex Anthrax e Armored Saint. Il cantato nella musica dei Long Distance Calling è ormai una storia finita, di nuovo, perché i Long Distance Calling ritornano con il quartetto originario e dunque niente voce, solo musica. Quale? Ariosa, impavida, con aperture melodiche improvvise, con toni che si appoggiano all’ambient e a qualcosa che tende alla psichedelia e al contempo, allacciata a un rock robusto dai connotati power e hard. I Long Distance Calling sanno ancora come suonare, come creare melodie, come erigere colonne sonore di sogni, speranze di vite e di sentimenti. Il tutto attraverso marce forsennate e quel continuo clima da ‘crescendo’, unico aspetto ormai abusato sia da loro stessi che da altri esponenti del genere. Come se la calma fosse appena sopportabile dal gruppo di Münster. “The Far Side” è il momento più duro dell’album, quello meno sentimentale. Mentre “Skydivers” in fatto di pesantezza non scarseggia, ma è serpeggiato da un’epica sonora sconquassante e stravolta. “In The Clouds” ricorda gli Ozric Tantacles, la prima parte di “Weightless” e altri scorci di “Boundless” richiamano David Gilmour o i Pink Floyd. Ogni pezzo ha un suo taglio, un suo significato, ma si resta inconsapevoli del fatto se esista o meno un quadro d’insieme. C’è impatto, c’è il senso del viaggio in tutto ciò, però ci sono anche i suoni: ruggenti, graffianti, levigati, mai soavi, impastati di sogni.

(Alberto Vitale) Voto: 7,5/10