(Massacre Records) Decimo anno e secondo album per i bavaresi Maahes. Potenti, cathcy, oscuri, travolgenti, molto orchestrali e decisamente feroci, offrono un disco corposo il quale con le bonus track supera l’ora di durata, senza comunque mai risultare ripetitivo o ridondante. Subito potentissima “Magic Slave” posta in apertura, interessante l’intermezzo misterioso di “The Resurrection”, irresistibile “Lord of the Underworld”, una canzone tanto basilare e diretta quanto ricercata, melodica e teatrale. Emergono idee non convenzionali con spunti di chitarra virtuosa sulla tumultuosa “Morbid Love”, mentre “Cult of the Sun” sfocia ampiamente nel symphonic black, strizzando l’occhio a certe band norvegesi. Profonda, lenta, maestosa e pomposa “The Crown and the Sceptre”, ancora pregiato symphonic black con “Keeper of Secrets”, prima del lungo outro ”Obsidian”, brano sognante, impostato su chitarra acustica, voce parlata e una ambientazione drammatica suggerita dalle tastiere. In ambito bonus, una monumentale e ossessiva “Patron Saint of Pharaohs (feat. Lele Habel)”, un’esotica “Medusa”(dall’EP “Ancient Force” del 2016) e una hidden track, il remaster/remix di “Nephthys’ Tears”, il singolo dell’anno scorso. Seguendo la nuova direzione stilistica, estetica e concettuale, il disco si addentra nei misteri e nei rituali dell’antico Egitto, nella sua dimensione occulta, nella follia dell’ambito divino e ciò che resta di tutti gli imperi finiti in rovina dopo un’epoca di grandioso splendore. “Nechacha”, ovvero il simbolo di dominio in mano a faraoni e divinità, conduce in un vortice di ferocia resa trionfale da arrangiamenti epici e da un’orchestrazione molto presente anche se mai dominante o invasiva, spingendo a tavoletta su una resa cinematografica avvincente.
(Luca Zakk) Voto: 8,5/10