(Go Down Records) Non è sicuramente la prolificità la caratteristica principale dei Maya Mountains. La band veneziana nasce infatti nel 2008, ma solo ora giunge a pubblicare il secondo album. Devo ammettere che questi dodici anni di attesa vengono ampiamente ripagati, perché “Era” è a mio avviso uno dei migliori dischi stoner/doom usciti negli ultimi anni. Brani dal forte sapore sabbathiano, ammantati di psichedelia alla Kyuss che si fondono con la decadenza proto grunge dei Melvins. L’album è un concept, quindi musicalmente è strutturato seguendo un filo narrativo. È quindi piuttosto inutile analizzare singolarmente i brani, visto che il disco va ascoltato in blocco, per farsi rapire dalle atmosfere oniriche della storia narrata. Musica che trae origine dalla fine degli anni ’70, si mescola con le sonorità disperate degli anni ’90 e la potenza delle produzioni moderne. Da avere!

(Matteo Piotto) Voto: 9/10

 

I veneziani pubblicano il secondo full length, sempre nell’ottica di uno stile tra stoner e heavy psych rock. Nessuna novità di stile, però i Maya Mountains suonano tutto quanto con una maniera esemplare. “Era” è coinvolgente. C’è ritmo, c’è pesantezza, groove. C’è stile. I Maya si producono in tre quarti d’ora di questo hard rock dai tratti settantiani, le atmosfere stoner quando la velocità aumenta, con brio e con quell’essenza Kyuss nelle vene. L’acido che cola dagli amplificatori è debordante, dona quel tocco ruvido e potente insieme. Essendo un trio, i Maya fanno sentire l’essenza, la radice del proprio sound. Un trio rock in genere è sempre libertà della forma. I riff, di Emanuel Poletto, sono insistiti e brevi. Scanditi come nenie, rinforzati e allacciati tra loro dal basso del cantante Alessandro Toffanello. Alla batteria Marco Bortoletto, che segue gli altri due e al contempo ha quell’operare come d’improvvisazione. Dunque se Poletto e Toffanello seguono schemi ben precisi, l’estro dell’intuito lo si ascolta in Bortoletto. Essendoci anche dello stoner nella proposta dei Maya Mountains, si odono tematiche sonore cosmiche, appena accennate in “Dead City” oppure in maniera cospicua con “Raul”, nel quale compaiono anche dei synth a opera di Alessandro Toffanello. Questo ultimo pezzo è un momento di classica cavalcata dalla forma libera. L’album parla di un tizio, Enrique Dominguez, che viaggiando nel tempo arriva in un mondo sconosciuto. Una città disabitata, vivendo una sorta di allucinazione. Si imbatte in un sacerdote con una maschera di gatto che attraverso un rituale lo spedisce in giro per costellazioni, galassie e stelle dello spazio infinito. Peace and love and don’t forget rock and roll!

(Alberto Vitale) Voto: 8/10