(Dissonance) Album eccellente e il primo dei tre verdetti di Al Jourgensen verso la politica di George W. Bush jr. Gli altri due saranno poi “Rio Grande Blood” e “The Last Sucker”, per una trilogia spietata e rabbiosa. Uscito nel 2004, “Houses ofthe Molé” vede l’approdo di Mike Scaccia nel tessuto chitarristico dei Ministry. Scaccia era già da anni nell’orbita della band, ma il suo contributo sarà notevole negli album che seguiranno. I testi ‘causati’ dalle guerre di Bush e da un suo atteggiamento che gli stessi americani, o una parte di essi, non hanno mai compreso creano un’acerrima guerra verbale, armata da una musica sempre più estrema e satura, spiattellata in faccia a certa politica statunitense che ha imperversato per otto anni. “House of the Molé” è l’album che molti fan ormai non si aspettavano più, mentre altri ritenevano fosse possibile dopo un capolavoro come “Psalm 69”, ma nessuno sapeva quando potesse arrivare. Arrivò, invece, e senza Paul Barker perché il bassista e amico di lunga data di Al Jourgensen molla la baracca. I Ministry presentano qualcosa che si scolpisce nella testa dei più e grazie a una serie di canzoni d’effetto e di nuovo lanciate a mille, veloci e non solo, determinate da un metal che è industrial, ma che è anche come quello di “Animositisomina” e se non addirittura vicino a certe cose di “ΚΕΦΑΛΗΞΘ”, anche conosciuto come “Psalm 69”, non può non ricordare “TV II” la canzone “WTV”, ma come principio di funzionamento e non perché fosse una copia spudorata. Ci sono i campionamenti dei discorsi di George Bush figlio che si incastrano perfettamente con la musica e il cantato, proprio come quelli di suo padre che si incastravano nei pezzi di “Psalm 69”. L’album è un ulteriore conferma sulle qualità di Al Jourgensen nel sapere giocare con la consolle in fatto di campionamenti inseriti nella musica e di missaggio. Reznor, non sei mai stato così bravo. Senza offesa. Elettronica ancora presente, metal messo in mezzo a furia di calci nel fondoschiena, oppure promosso subdolamente con andature ipnotiche ma sature di odio. Il suono generale questa volta è ancora più sintetico, futuristico, artefatto e trattato di quanto non lo fosse “Animositisomina”, ma non da meno sincero nel comunicare il caos evidente e latente che ogni singola canzone possiede e che punta il dito all’estabilishment americano e alla nazione stessa. Al giorno d’oggi riflettendo su chi possa essere il successore di “Psalm 69”, “Houses of the Molé” probabilmente metterebbe d’accordo tutti.

(Alberto Vitale) Voto: 8,5/10