(The Players Club) Negli ultimi mesi, forse da un anno almeno, ogni album solista di un chitarrista affrontato da chi scrive queste righe si è sempre rivelato un ascolto avvincente. Nel caso di Paul Gilbert come non confermare quanto affermato? Lui, ex Mr. Big e tra le sei corde più celebrate nel pianeta hard rock e non solo, non affatto al primo album solista e questo infatti è il sedicesimo, Gilbert strappa applausi. Già l’opener “Hello North Dakota!” con la sua freschezza di suoni, la sua vivace costruzione architettonica e appunto chitarristica, lasciano ben sperare l’ascoltatore sul resto di “Werewolves Of Portland”. Quello stile nel quale le note sono incollate l’una all’altra e senza apparire una fiumana vorticante, nella quale si poggiano melodie brevi, secche e immediate che splendono da subito, si emergono in maniera impareggiabile. Lui suona tutti gli strumenti e la pandemia gli ha dato il tempo necessario per affinare ogni cosa. La batteria l’ha sempre amata, il basso sa suonarlo per conseguenza della chitarra e, lo si sottolinea, il suo stile con il quattro corde fatto anch’esso di note che si susseguono legate e scivolose, è impeccabilmente il suo. Gilbert si è approcciato all’album totalmente attraverso il suo strumento e per le registrazioni ha usato la sua fidata Ibanez Fireman e altri modelli, anche vintage e sempre Ibanez, come l’Ibanez Artist, Roadstar II e Ghostrider. Anche una Epiphone Olympic degli anni ’60 modificata. Hard rock, rock e influenze blues, nonché qualcosa degli anni ’70 che girovaga in certe melodie e progressioni. L’album è scorrevole e tanto da arrivare ad ascoltarlo a ripetizione negli ultimi tempi. Forse “Werewolves Of Portland” spicca principalmente per le melodie che per una tecnica fine a se stessa e comunque nota del chitarrista americano che ha ormai ha espresso da decenni. Poi ovviamente è la sei corde a dare il massimo, la centralità del tutto e questa è l’unica cosa scontata dell’album.

(Alberto Vitale) Voto: 8/10