(Iron Bonehead) Il black metal dei tedeschi Reign in Blood ha un gusto speciale: per certi versi è variegato, molto evoluto (ci sono momenti che mi fanno pensare perfino ai canadesi Akitsa!), ma per altri è dannatamente vintage, un black metal indietro nel tempo talmente tanto da essere ancora difficilmente scindibile, ampiamente dentro quella musica estrema precedente alle diramazioni, musica vicina al death, al thrash, ricca di assoli, voce spinta ma non sempre così tanto, avvicinando quindi il sound anche a vecchi Sodom o Kreator. Dopo un lungo silenzio (il debutto e precedente cult album “Diabolical Katharsis” è uscito ben dieci anni fa!) sono tornati, improvvisamente come quando arrivarono sulla scena, improvvisamente come l’inizio del loro decennio di oblio, dando vita a quasi tre quarti d’ora di musica estrema senza tempo, non strettamente classificabile, capace di essere catchy, ma anche violenta, epica, drammatica e stimolante. La line up in questi anni è ovviamente cambiata (e forse è stata anche la causa dell’eterna pausa artistica) ma ad oggi ci sono ancora -più convinti che mai- il front man Demon Raise ed il chitarrista Malus Deus, i quali nel 2016 hanno -per fortuna- ceduto all’irresistibile impulso di tornare a strimpellare assieme, cosa che a portato inevitabilmente a questo nuovo lavoro. Un black metal dall’anima antica (anima, non scuola!), dove il duo riversa dentro ogni malattia mentale che infligge i loro irrequieti sonni notturni: estremismo sonoro, sonorità primitive e a volte lo-fi, un cantato senza una regola precisa (si spazia dallo scream pulito al growl macilento, ma c’è corale, c’è straziato… di tutto!), complessità di arrangiamenti e sferzate dirette prive di apparente ordine logico. “Dawn Of A Dying Soul” rivela subito la schizofrenia compositiva della band: veloce e black da subito, con forti accenti melodici i quali poi esplodono in un assolo dal pregiato gusto thrash datato, con poi una serie così ampia di evoluzioni e deviazioni che una band qualunque ci avrebbe ricavato un EP intero. Sostenuta, travolgente e diabolica “Black Hole”, parentesi superlativamente epica su “Metamorphose With The Universe”. Mid tempo malato nella title track, degenerata e volutamente ignorante “Domus Mortuorum”. “Anima” è teatrale, un teatro degli orrori, mentre “Wolfhour” accompagna verso l’outro con nervosismo, confusione, caos e dannazione eterna. Il black tedesco è sempre stato molto originale e difficile da paragonare con quello del resto dell’Europa o del Nord America, ma con “Missa Pro Defunctis” questo concetto viene enfatizzato: un album irresistibile, pieno di sorprese, creativo, attraente, ipnotizzante… ma anche selvaggio, grezzo, deliziosamente scoordinato ed intenzionalmente pieno di confusione. La colonna sonora perfetta per uno stato di psichico tutt’altro che compatibile con vita e società!

(Luca Zakk) Voto: 8/10