(I, Voidhanger Records) Immaginiamo per un attimo che, presi da una gran fame, decidiamo di andare in un ristorante per mangiare un succulento piatto di spaghetti alla carbonara; dopo pochi minuti il cameriere arriva con un piatto abbondante di spaghetti, cotti a puntino, però in bianco, con a parte della guanciale croccante, una forma di pecorino ed un paio di uova fresche. Il cameriere ci ha portato tutti gli ingredienti costituenti un’ottima carbonara, ma presentati separatamente, senza alcuna amalgama, nessuna cremosità, nessuna cosa in grado di creare quell’acquolina alla bocca alla vista di una bella spaghettata. Questa sensazione la provo ascoltando “Mossbane Lantern”, ultima uscita a nome Sallow Moth, moniker dietro il quale si cela il genio bizzarro del poli strumentista Garry Brent; un progetto dedito inizialmente ad un brutal death di stampo americano, il quale si è evoluto in un technical death con sempre più preponderanti aperture verso il jazz e la fusion, sulla scia di Cynic, Atheist ed artisti più estremi, come Cephalic Carnage. Le band sopra citate hanno l’innata capacità di infondere sonorità jazz in mezzo a partiture estreme con grande naturalezza, come dimostrano capolavori del calibro di “Unquestionable Presence” e “Focus”, due dischi che, citando la metafora posta in apertura, offrono una carbonara davvero succulenta e con gli ingredienti bilanciati… cosa che non sempre succede con “Mossbane Lantern”, dove capita spesso che partiture jazz, spesso di ottima fattura, vengano inserite in mezzo a pattern brutali di altrettanta qualità, ma spesso risultando fuori contesto tra loro. Ne è un esempio lampante “Aethercave Boots”, costituito da riff dissonanti, velocità assurde ed un growl disumano, il tutto inframmezzato da improvvisi stacchi, cambi di tempo e grandi assoli… e fino a qui tutto va bene: ma l’assurdità arriva nel finale, con una coda puramente jazz, con chitarre non distorte e totalmente incompatibili, una partitura che sarebbe stata bene all’interno del brano per conferire maggior varietà, oppure utilizzata come interludio. Ripeto, sia la sezione brutal death che -e soprattutto- quella jazz, sono di splendida fattura, solo che non c’entrano nulla l’una con l’altra. Un album fin troppo eclettico, da parte di un musicista folle, tecnicamente mostruoso, ma forse fin troppo incoerente. Per molti questo è un pregio, magari vedono tutto questo come visionario ed avanguardista. Personalmente ne apprezzo le intenzioni, ne riconosco la genialità, ma preferisco brani che abbiano un filo logico.
(Matteo Piotto) Voto: 6/10