(Black Lodge Records) Tornano con il secondo album gli svedesi Wormwood, dopo il valido “Ghostlands: Wounds From A Bleeding Earth” uscito un paio di anni fa (recensione qui). Si conferma quell’aura folk rivista in chiave black, un’aura folk esaltata anche da alcuni interessanti guest i quali confermano quella tendenza, tra questi Erik Grawsiö (Månegarm) e Mika Kivi (Paara). La componente epica, quella tonalità di folklore per l’appunto, è ulteriormente supportata dalla voce guest femminile di Moa Sjölander e pure dal suggestivo violino di Martin Björklund. Il risultato è musica con le feroci impostazioni black alternate da evocative parentesi pagan, melodie dal sapore tradizionale, voci clean violentate da sfoghi growl demoniaci. Essendo comunque svedesi, non manca una radice del black melodico tipico del paese, ma è innegabile che la tradizione storica è un elemento che domina prepotentemente queste settime intense traccie, le quali -infatti- parlano di vari soggetti vittime di solitudine e conflitti, specialmente durante la carestia che colpì la Svezia tra il 1867 ed il 1869, gente senza nome, gente dimenticata, famiglie dissolte a causa di condizioni invivibili magari peggiorate dal clima nordico. Brutale ma ricca di sferzante melodia “Av Lie och Börda”. Pulsante “I Bottenlös Ävja” (feat. Mika Kivi), un brano con un intermezzo stupendo, cantato in maniera superlativa in lingua madre. Possente “Arctic Light”, ma anche molto oscura, tetra, introspettiva. “The Achromatic Road” (ispirato al libro “La Strada” di Cormac McCarthy) ha una radice heavy, quasi black’n’roll, e la parentesi melodica ha un gusto più riflessivo che folkloristico. È su “Sunnas Hädanfärd” che troviamo Erik Grawsiö, ed infatti si tratta del brano più meravigliosamente pagan del disco, sia musicalmente che relativamente alle tematiche trattate (Ragnarök e Sunna ovvero la personificazione del sole). Rabbia feroce su “Tvehunger”, prima della lunghissima e conclusiva “The Isolationist”, un brano molto elaborato e teatrale, ricco di chitarre e melodia progressiva, una canzone che emana tristezza, malinconia, nostalgia ma nessuna forma di rimorso o pentimento. A differenza del debutto, la band ha messo molto a fuoco una direzione specifica: l’album non si perde tra le innumerevoli release black, e non si confonde tra le infinite produzioni metal folk. Si inizia a definire uno stile ben specifico, in grado di esaltare le capacità musicali e compositive dei musicisti. I brani sono avvincenti, catchy, scatenano esaltazione ma anche rabbia e violenza, oltre che catturare la mente e trascinare lungo viaggi dal sapore mistico: un ottimo accostamento che esce con decisione dalla mischia riuscendo a farsi notare!

(Luca Zakk) Voto: 8/10