fotoriccardogioggi1Riccardo Gioggi è un “axeman”, un “guitar hero”, un “virtuoso”, per dirla nei modi in uso nel metal per indicare un chitarrista con particolari doti tecniche. Gioggi però è anche un musicista, compositore e con spiccate doti melodiche all’interno delle sue composizioni, racchiuse nell’album solista di debutto dal titolo “A Theory of Dynamics”, licenziato dalla Digital Nations di proprietà di Steve Vai. Questa intervista offre la possibilità di conoscere una persona cordiale, disponibile e con un bagaglio di esperienze interessanti.

Innanzitutto vorrei rinnovarti i miei complimenti per l’album che ho apprezzato e solitamente non sono un fanatico dei “guitar heroes”. Iniziamo proprio dall’album. Come vi siete incontrati tu e la Digital Nations di Steve Vai?
Grazie davvero dei complimenti, non posso che essere onorato del tuo apprezzamento, ancor di più perché come mi dici non è esattamente il tuo genere di cose. L’incontro con Digital Nations è avvenuto tramite un semplice contatto mail. Mi trovavo verso la fine del missaggio di “A Theory of Dynamics” e ho iniziato a guardarmi attorno per capire quali potessero essere le etichette adatte al mio genere e che potessero essere interessate. Ho stilato una lista di etichette specializzate in album di genere affine al mio, ma non ti posso nascondere che Digital Nations è stata da subito in cima alla lista di quelle in cui speravo. Hanno ascoltato il materiale e mi hanno ricontattato offrendomi questa bellissima opportunità: colgo l’occasione per dire una volta di più grazie a tutto il team Digital Nations, è davvero un onore per me vedere il mio album con il loro logo accanto!

Quanto tempo hai impiegato per pensare e scrivere questi pezzi?
“Designs” e “Every Single Step” le avevo nel cassetto già da un po’, tutti gli altri brani sono stati scritti e arrangiati nell’arco di 6-8 mesi circa. Ho sempre proceduto nel completare ogni singolo brano totalmente prima di passare al successivo, cerco sempre di essere molto metodico in queste cose perché, almeno per me, i risultati sono più naturali: se inizi a scrivere un brano, ti fermi e lo riprendi due mesi dopo, è facile perdere il “focus” di quella che era l’idea iniziale. L’ultimo a essere stato scritto è stato “Air”, che vede la partecipazione del bassista statunitense Michael Manring all’ hyper bass e al basso fretless. Riascoltando la pre-produzione ho sentito il bisogno di aggiungere un momento di respiro all’album, che spesso e volentieri è abbastanza tirato. E’ un pezzo breve, ma che ha un’intensità e un’atmosfera diversa da tutti gli altri, anche perché non ci sono chitarre elettriche. Inoltre, è in assoluto il primo pezzo che abbia mai registrato suonando totalmente solo con le dita, senza plettro.

Con te nell’album suonano Simone Del Pivo (batteria) e Marco Mastrobuono (basso), oltre ad interventi di altri musicisti. Come hai scelto questi tuoi collaboratori e che peso hanno avuto nell’economia della composizione?
Certamente, Marco e Simone sono i due “partners in crime” principali di tutto l’album, diciamo così. Il resto dell’album vede interventi di Andrea Grant al piano su “Every Single Step” e sempre con lui ho lavorato a 4 mani alla programmazione delle parti full orchestra, e posso dirti che è un numero uno in questo campo. Era mia intenzione usare il minimo possibile strumenti campionati, ma quando ho sentito necessità di aggiungere delle parti di sezioni di archi, be’ non potevo permettermi di andare ad ingaggiare un’orchestra, ed è stato molto più pratico così, anche considerando che si tratta di piccoli interventi sporadici nell’economia degli arrangiamenti. Dove invece strumenti estranei alla classica formazione rock erano in primo piano, in quel caso ho preferito registrare strumenti veri: Leonardo Spinedi al violino in “Designs” e Francesco Parente al violoncello su “Every Single Step”.
Ho scelto loro perché li stimo profondamente dal punto di vista professionale, ma anche perché alcuni di loro sono tra i miei migliori amici: era fondamentale per me lavorare con persone con cui già sapevo di essere affiatato. Inoltre, registrare con loro è stato davvero una cosa rilassata e molto semplice: nessuno stress e nessuna tensione. Nel caso di piano, violino e violoncello, ho dato loro le parti scritte e così le hanno suonate, certamente aggiungendo la loro interpretazione e sensibilità. Nel caso di basso e batteria, ho dato loro le demo di tutto l’album: le chitarre all’80% erano uguali a quelle dell’album a livello di parti, ma la batteria era  programmata e il basso suonato da me. Ho dato loro le demo più che altro per dargli delle linee guida: l’unica indicazione è stata di non uscire dall’atmosfera del brano, ma a parte questo li ho incoraggiati a proporre soluzioni e loro idee riguardo i loro rispettivi strumenti, a suonare secondo il loro istinto. Sono bravissimi e non avrebbe avuto senso imbrigliarli nelle mie idee per forza. Mi fido di loro e so quello di cui sono capaci, quindi ho preferito giocare di squadra e la cosa ha pagato: la loro performance e il loro suono  hanno portato tutto l’album a un livello superiore.

fotoriccardogioggi2Di te ho scritto che sei “un chitarrista pulito e nella sua digitazione delle corde si avverte un continuo senso della melodia e della sua definizione”. Ammesso che sia possibile creare una definizione per un musicista, ma Gioggi cosa pensa dello stile di se stesso?
Ti ringrazio di aver colto questo aspetto del mio suonare, essere melodico è senz’altro un fattore basilare per me, cerco sempre di offrire temi forti ogni volta che scrivo: senza questi sembrerebbe tutto più una base per suonarci sopra più che una canzone con una sua personalità e questa è una delle cose che, anche da ascoltatore, voglio sempre evitare. Sul mio stile posso dirti che è sempre e costantemente in ‘divenire’. Studio ogni volta che posso e cerco di imparare sempre qualcosa di nuovo, non mi piace molto l’immobilismo stilistico in un musicista! Certo ognuno ha il suo proprio linguaggio sullo strumento, ma quella che è una forza non deve diventare una “gabbia”: se ascolti i grandi della chitarra (ma non solo), la loro personalità è lì fin dal primo album, in tanti casi. Ad oggi sono sempre loro e lo senti, ma allo stesso tempo suonano diversi dal primo album. Cosa penso del mio stile? Facendo un po’ di autoanalisi, credo che il mio modo di suonare abbia le sue fondamenta nel metal, senza dubbio. Oltre a questa base però, suono, studio e ascolto tantissime cose diverse e spesso lontanissime dal metal o dal rock, e le avverto tutte chiaramente nel mio modo di suonare. C’è poi da dire che ognuno percepisce ogni cosa in base ai suoi gusti e a ciò che già conosce, quindi credo sia abbastanza soggettivo. Giorni fa, parlando con una persona, questa mi ha definito “fusion”: cosa lontana dalla realtà secondo me, ma magari io ho una mia idea di ciò che è fusion diversa dalla sua, ho capito questo e rispettato da subito le sue parole…definire la musica è sempre stata una questione spinosissima e facile ai fraintendimenti!

Focalizziamoci sulla tua storia personale. Hai lavorato con Nathalie Giannitrapani, vincitrice nel 2011 di X-Factor e partecipato al Festival di Sanremo del 2011. Puoi dirmi le cose positive di queste due manifestazioni (una nuova, l’altra ormai istituzionale) nel mondo attuale della musica?
Sì, ho suonato con Nathalie per un paio d’anni in una band nu-metal, i Damage Done, fino al 2005/2006. Credo che entrambi abbiamo fatto la nostra prima esperienza di un tour italiano all’interno di quel progetto. Non posso dire di sentirla spesso ora, ma quando è capitato di incontrarci per caso in qualche locale, abbiamo sempre fatto delle gran belle chiacchierate, siamo in ottimi rapporti e la stimo moltissimo. Su X-Factor e Sanremo, ti premetto che non ho avuto rapporti diretti di nessun tipo con queste due manifestazioni, quello che posso dirti è solo un’impressione dall’esterno, come quella di chiunque altro fuori dall’ambiente musicale. Di X-Factor, levando tutti i discorsi televisivi e di costume, penso che per un cantante sia un trampolino di lancio alternativo ai vecchi modi di proporsi e di attirare su di sé l’attenzione delle grandi major; per di più indirettamente un concorrente si trova ad autopromuoversi dall’interno del programma già prima di aver inciso il proprio album: alla fine di ogni edizione del programma, chi vince è già stato in tv per i tre mesi precedenti, e in qualche modo è già noto e probabilmente questo credo sia uno dei punti centrali della cosa, a livello promozionale. Su Sanremo, be’ è una prassi decennale del palinsesto televisivo e per curiosità lo seguo sempre. Dal mio punto di vista, massima stima per i musicisti dell’orchestra, grandissimi professionisti: stare per ore concentrati a suonare perfettamente, gestire i cambi di suono e di registro in ogni brano, restare lucidissimi in tutte le lunghissime pause tra un pezzo e l’altro quando ci sono ospiti e chiacchiere varie per poi ricominciare senza il minimo calo di attenzione, sono tutte cose ammirabili per me. Sui partecipanti, be’ lì si va a gusto, a volte mi piacciono a volte no, ma fortunatamente ogni tanto capita qualcosa di più particolare e meno “classicamente sanremese” tipo Elio e Le Storie Tese, come nell’edizione in corso in questi giorni, che propongono qualcosa di interessante e diverso da ogni cosa mai fatta su quel palco. A parer mio, la loro “Canzone Mono Nota” è geniale!

Hai lavorato anche in RAI, ma soprattutto hai creato jingle pubblicitari; anche Lou Reed all’inizio della sua carriera faceva questo. Che genere di lavoro è? Si riesce a scrivere melodie su commissione e magari in tempi stabiliti?
E’ un lavoro che mi piace davvero molto. In RAI mi sono occupato di vari programmi, ma sicuramente quello in cui ho lavorato con le mie musiche con più assiduità è Sfide, un programma di documentari sui campioni dello sport, quella di quest’anno è stata la terza edizione cui ho partecipato. Normalmente per gli spot funziona che il committente in prima battuta ti spiega a parole il tipo di musica di cui ha bisogno, ti viene fornito un montato del video e da lì inizia il tuo lavoro sulle musiche. Anche per Sfide è grossomodo lo stesso: Germana Renzi, una dei registi  -questo programma ne ha più di uno- mi chiama e mi spiega di cosa ha bisogno; nel caso dei documentari ed essendo una cosa televisiva i tempi di lavoro sono incredibilmente compressi e non sempre riesco a vedere un premontato, ma devo dire che lei è talmente dettagliata nelle spiegazioni che alla fine l’unione del suo montato e delle mie musiche ha sempre funzionato benissimo.
Venendo alla seconda parte della domanda, assolutamente sì, si riesce e si deve scrivere su commissione: quando ti viene chiesto un lavoro di musiche e ci sono dei tempi stabiliti, non può esistere il “non mi viene in mente niente”. Devo dire che scrivere a comando è una cosa che mi viene senza particolari sforzi: si tratta di ascoltare attentamente cosa ti viene chiesto e di immedesimarti nella “visione musicale” del committente. Cerco di capire esattamente cosa mi si sta chiedendo e in qualche raro caso posso dirti che è stato fondamentale capire all’istante che le indicazioni musicali che mi si stavano dando erano contraddittorie, se non direttamente sbagliate! In casi così, c’è un po’ più mestiere del solito, ma fa parte del gioco.

Hai competenze di ingegnere del suono e hai lavorato ad un DVD live degli About Wayne. Potresti spiegarmi oggi cosa succede a materiale live nel momento in cui  lo si lavora per fare un CD o DVD live? Si sovraincide, si taglia, si aggiusta, cosa succede?
Posso risponderti solo per quello che riguarda i lavori che ho fatto, ma al giorno d’oggi ogni live ha qualcuno – che sia la band, la produzione, management ecc. – che decide che taglio dargli e se o  quanta tecnologia correttiva impiegarci. Personalmente odio la perfezione finta che si sente in tantissimi album da qualche anno a questa parte, ormai spesso è tutto quantizzato e la cosa non mi piace. C’è un abisso tra una parte perfettamente suonata, e la stessa parte perfettamente editata. Ma questo è proprio più degli album in studio. Potenzialmente, sì anche in un live potresti fare quello che vuoi con le singole tracce, se registrate senza i rientri degli altri strumenti, magari usando soluzioni tipo l’isobox per le chitarre o andando in diretta nell’impianto, questo solo per fare un esempio. Potresti anche reincidere delle parti in studio, credimi potresti fare quello che vuoi! Fortunatamente tanti  musicisti hanno un’etica molto forte per queste cose, e non credo che nessuno o quasi vorrebbe mettere in giro un finto live. Io di certo non lo vorrei. Posso dirti, essendomene occupato io, che il live degli About Wayne è totalmente ‘vero’. Li ho registrati tutti insieme nella stessa sala amplificatori compresi, alla vecchissima maniera per loro espressa richiesta, proprio per catturare lo spirito del live e naturalmente, c’erano parecchi rientri nei microfoni. In particolare i piatti della batteria rientravano un po’ dappertutto. Mettersi a fare editing in una situazione di quel tipo avrebbe significato disintegrare quella registrazione, creando grandi problemi. La somma delle tracce invece, aveva il suo carattere, suonava già vicina a come la puoi sentire. Era chiaro di partenza a tutti che le take non sarebbero state toccate: io ho fatto il mio facendo i suoni e gestendo la microfonazione, loro hanno suonato bene e senza sbavature e tutto è andato alla grande.

Ci vorrebbe tempo e spazio per parlare delle persone e musicisti che hai conosciuto e con i quali ti sei esibito. Stef Burns (Alice Cooper, V. Rossi), Andrea Braido (Vasco Rossi, Zucchero, Laura Pausini), Cesareo (Elio e Le Storie Tese), Steve Piccolo e tanti altri. Tra questi c’è qualcuno che ti ha sinceramente colpito per le sue capacità musicali?
Per aspetti diversi, tutti loro mi hanno colpito: è gente, professionalmente e musicalmente parlando, a livelli talmente alti che è impossibile restare indifferente! Avere passato del tempo con loro è stato un momento di crescita e ho imparato tantissimo dal loro approccio, anche solo dal vederli suonare. Sono uno che osserva molto e devo dire sinceramente di avere “rubato con gli occhi” non poco; ma sarebbe stata una cosa da pazzi non cercare di incamerare il più possibile da occasioni simili. La parte più bella però al di là della situazione, era fare una semplice chiacchierata, parlare di musica ma anche del più e del meno, racconti, aneddoti ecc. Lì vedi la persona che c’è dietro il musicista: la sua attitudine, la sua formazione. A volte, una bella chiacchierata può insegnarti quanto 100 lezioni di chitarra!

Invece dal punto di vista umano?
Mi spiace ripetermi, e non lo dico per fare il diplomatico, ma anche su questo punto mi sono trovato davanti tutte persone estremamente positive, alla mano e coi piedi per terra. Nemmeno l’ombra di nessun atteggiamento da star, nonostante sarebbero nella posizione di poterlo fare. Onestamente, le volte che mi sono trovato di fronte ai classici “pieni di sé”, erano tutti casi nemmeno paragonabili al loro livello di professionalità, di capacità e, diciamolo, di successo e realizzazione professionale. Nella mia esperienza personale,  in genere più grandi sono e più sono persone tranquillissime e alla mano.

Domanda banale: perché fare un album solista e porre al centro la chitarra? Non che il resto degli strumenti e musicisti stiano a guardare in “A Theory of Dynamics”, ma ovviamente è musica scritta e voluta da un chitarrista. L’intenzione quale è stata: di provarci, di farne uno per poi farne altri ancora, di esprimere liberamente la tua arte?
Credimi che non so risponderti in maniera più di tanto razionale a questo. Potrebbe sembrare ovvio, ma ho scritto questo album e ho lavorato per realizzarlo semplicemente perché sentivo di volerlo fare, non ci sono calcoli dietro. Di certo spero di poterne fare altri in futuro, anche se al momento non ho nessun nuovo pezzo finito al 100%, diciamo che sto raccogliendo idee estemporanee qua e là. Me la sto prendendo molto tranquillamente anche perché “A Theory of Dynamics” è uscito da qualcosa tipo 8-9 settimane, è pochissimo considerando i tempi normali che ci possono essere tra un album e l’altro.
Però posso dirti che sì, l’intenzione base era quella di creare qualcosa di libero e istintivo, di esprimere liberamente le idee musicali che mi sono passate per la testa e che mi sembravano abbastanza valide da meritare di essere registrate, senza vincoli e senza stare a pensarci troppo su. E’ vero che a volte i brani del mio album sono molto complessi, ma di base quello che senti è venuto molto d’istinto. Nemmeno l’idea di porre al centro la chitarra posso dire che è stata una scelta ponderata, non c’è un motivo particolare dietro: semplicemente sono un chitarrista ed è stato naturale un approccio di questo tipo.

Di recente Malmsteen si è anche messo dietro al microfono. Tu hai pensato a fare qualcosa di simile o magari di reclutare un cantante?
Mai dire mai, ma non credo che questa cosa possa accadere. Ma non fraintendermi, ho suonato con band, cantanti e in un’occasione anche con un coro di 35 elementi: non ho nulla contro le voci! Semplicemente, per quello che riguarda la mia musica sento di riuscire a esprimermi completamente attraverso questo tipo di scrittura strumentale. Però il fatto che il mio album sia strumentale non significa necessariamente che io voglia suonare esclusivamente musica strumentale a vita: sono aperto a qualunque collaborazione professionale, e se domani mi mettessi in testa di formare una nuova band, il cantante giusto sarebbe la prima cosa che cercherei. Ma per come lo immagino io, se un album ha il mio nome in copertina, è sicuramente un album  strumentale.

Ultima domanda. Ultimamente sento dire che in Italia non c’è cultura musicale. Posso avere una tua sincera opinione?
Personalmente, non credo che in Italia non ci sia cultura musicale, o meglio, non la metterei in maniera troppo categorica. Voglio dire: ci sono tantissime persone appassionate, tantissime band, tantissimi musicisti che sicuramente sanno il fatto loro, che hanno una mentalità aperta e che ne sanno davvero molto di musica, sia dal punto di vista professionale che di cultura musicale personale. Non credo sia nei singoli questa mancanza di cultura, quanto piuttosto nelle nostre istituzioni che non danno il giusto peso a una disciplina come la musica e non la rendono accessibile come potrebbero. Praticamente in tutti i paesi del Nord Europa – e dico Nord Europa solo per non allontanarmi più di tanto dalla realtà italiana – è normale suonare uno strumento, lo insegnano a scuola ed è normale andare ai concerti per chiunque, non solo per gli appassionati. Mi raccontava anni fa la mia insegnante di solfeggio che in Germania a volte le fabbriche propongono delle ore stop lavorativo e portano gli operai a sentire concerti di musica classica, cosa che qui sarebbe più che fantascienza! Lì la musica è veramente una cosa che fa parte dell’educazione e della vita di tutti, ed è in questo punto che secondo me c’è il problema. Sono inoltre convinto che lo studio della musica sia un potentissimo mezzo di automiglioramento, e che porti dei grandissimi benefici a livello intellettivo, caratteriale e anche a livello di civiltà verso il prossimo. Non ho prove concrete di questo e non ho mai letto libri di sociologia su queste cose, ma sinceramente mi piace vederla così.

Bene, è tutto. Io ti saluto e lascio che tu faccia lo stesso con i lettori e magari aggiungi altro, se vuoi.
Innanzitutto ti ringrazio davvero per lo spazio e la bella chiacchierata, e con grande piacere mando un saluto ai lettori di Metalhead! Se siete arrivati a leggere fino alla fine dell’intervista, ne sono onorato e quindi grazie di nuovo per la vostra attenzione e il vostro interesse! Un salutone!  \m/

 

(Alberto Vitale)

Recensione