“Jester in Brick Lane” di Yerbadiablo è un’opera immensa, un qualcosa di più di un semplice album. E’ musica, è un album rock, ma il messaggio che contiene è universale. Le figure e gli argomenti che lo popolano sono un parto della passione e il legame di Nick (curatore del progetto) verso il Sudamerica, ma queste possono essere estese ad un discorso che abbraccerebbe comunque intere culture. Un album del mondo e non solo di una parte di esso. Per dare un’esaustiva descrizione di Yerbadiablo vi rimando alla presentazione dell’album nel profilo facebook, redatta dallo stesso Nick. Metalhead ha tentato di descrivere questo sound con la recensione e a questa intervista all’artista. L’ascolto di “Jester in Brick Lane è stato una sorta di viaggio, attraverso innumerevoli sonorità e che ora prendono voce attraverso le parole di chi le ha concepite.

“Ci sono paesaggi, come certi istanti della vita, che non si possono cancellare mai dalla mente; tornano sempre ad attraversarci dal di dentro, con intensità ogni volta più forte” Francisco Coloane

Ciao Nick. Come d’abitudine ho preso ad ascoltare l’album senza guardare chi e cosa fossero le persone dietro a ciò che ascoltavo. Più avanti, alla fine del secondo ascolto, ho preso a documentarmi e scopro che Yerbadiablo è un progetto solista o che almeno è nato come tale. Puoi dirmi qualcosa di più su questo aspetto?
Ciao Alberto, innanzitutto grazie per lo spazio concesso su Metalhead.
É esattamente così, Yerbadiablo è un progetto solista al quale hanno partecipato diverse persone in qualità di special guests. Senza il loro apporto sarebbe stato davvero complicato portarlo a termine e il sound avrebbe avuto sfumature diverse.
Il progetto è nato un po’ per gioco, un po’ per sfida e un po’ per destino. Nel periodo in cui l’album era ancora soltanto un’idea ho avuto la fortuna di poterla condividere con il produttore Luca Gomedi dell’ High Distortion Level Studio, mio carissimo amico con cui in passato ho suonato. Ad unire entrambi è la passione per la musica e una voglia incredibile di sperimentare. Lui sul suono, io nella composizione delle canzoni e nella stesura degli arrangiamenti. Questo connubio ha dato la spinta propulsiva e definitiva al progetto.
Direi che Yerbadiablo pur essendo una one man band è di fatto una creatura a 3 teste: la mia, quella di Luca Gomedi e ovviamente quella del giullare!

Ricordo la prima canzone che ho ascoltato di Yerbadiablo, l’anteprima di “Punk In-Fusion”. La canzone mi colpì subito ma non avrei mai immaginato che quell’hard rock-punk fosse la punta di un iceberg e che l’album rivelasse poi un’altra identità. Quell’ In-Fusion ha un grande significato, vero?
Hai perfettamente ragione, si tratta forse della canzone meno ambigua dell’album, ma che già propone un piccolo assaggio di quello che sarà il seguito. Nei suoi 3′ si alternano infatti Southern Rock, Punk e Reggae, senza dimenticare la base ritmica Funk che fa da tappeto alle prime due strofe. Una fusione di generi dunque, o ancor meglio, un’infusione di generi. Non a caso nella simbologia del booklet questa track è rappresentata dal calderone della strega.
Ma è nel testo, oltre che nel titolo, che Punk In-Fusion rivela subito la chiave di lettura per poter intraprendere correttamente il contorto cammino di “Jester in Brick Lane”.
Le frasi “swimming against the stream” (nuotare contro corrente), “if you don’t recognize any flag”, “if you refuse every border line” (se non riconosci nessuna bandiera, se rifiuti ogni confine) rappresentano il mio modo di essere e di pensare, e al tempo stesso fungono da passepartout per accedere alle 13 tracce con la giusta predisposizione mentale.
Non ci crederai, ma nella travagliata stesura della tracklist “Punk In-Fusion” è sempre stata l’unico punto fermo. Doveva essere la prima traccia dell’album, non solo perché è energica, di forte impatto, e più orecchiabile rispetto alle altre, ma anche e soprattutto per il testo. Per gli stessi motivi, ovviamente è stata scelta anche come anteprima per promuovere l’album. Come dici tu è una canzone fuorviante, ma quale altra canzone non lo sarebbe stata?

Il fatto di veicolare più generi e risvolti musicali, ma di riferirsi sempre a quell’anima sudamaericana o comunque latina insita nel nome è stata una scelta o un atto spontaneo?
Non è né una scelta né un atto spontaneo. Semplicemente il Sudamerica è dentro di me da quando 13 anni fa ho toccato per la prima volta il suolo di questo meraviglioso continente. I suoi colori, i suoi profumi, la sua gente, la sue tradizioni ancestrali, la sua aura di magia, ma anche i suoi contrasti e la sua cruda realtà, fatta di povertà, ingiustizia e infinite contraddizioni, hanno avuto un forte impatto sulla mia personalità.
L’anima sudamericana e latina su cui poggia “Jester in Brick Lane”, e che tu hai colto perfettamente,  rispecchia una parte della mia stessa anima. La principale musa inspiratrice dell’intero album è probabilmente il Sudamerica.
Da lì proviene “Jester in Brick Lane” e lì ritorna sotto forma di canzoni, come una sorta di personale e doveroso tributo. Un po’ come un cerchio che si chiude…

Nel profilo facebook compare una dettagliata bio, una presentazione dell’album, una lucida track by track e i testi. In queste parole ho trovato “il significato stesso dell’album, perfettamente impersonificato nella figura del giullare, poliedrico ed eccentrico personaggio la cui presenza si avverte lungo tutte le 13 tracce che compongono l’opera”. Un giullare, perché?
Ti devo fare i miei personali complimenti per aver avuto la pazienza di leggere la lunga presentazione di “Jester in Brick Lane” sulla mia pagina facebook. Non so quanti altri faranno la stessa cosa, ma ovviamente la consiglio. Credo che dopo aver letto avrai ascoltato l’album con ancora più attenzione.
Il giullare è la figura magica che manovra i fili delle 13 songs e le lega una all’altra. “Jester in brick Lane” non è un vero e proprio concept album, perché non narra una storia, ma ha nel giullare un personaggio dominante che è concettualmente il significato di tutto l’album. Ho sempre avuto un debole per la figura del giullare. Perché evoca l’estro, il genio, la magia, il mistero e la follia. Lo immagino come un personaggio “senza volto” per via del make up che cambia continuamente, “senza nome”, “senza passato”, “senza radici”.
“Jester in Brick Lane” cambia pelle ad ogni canzone, come fosse un nuovo numero di prestigio del giullare. E’ lui che guida, è lui che provoca, è lui che ipnotizza e che infine punisce i colpevoli, drammaticamente incarnati nella razza umana. L’unica specie vivente che, oggi più che mai, non riesce più a convivere in armonia con la natura, il pianeta terra e il cosmo. “Jester in Brick Lane” auspica a un risveglio, a un ripercorrere a ritroso la linea evolutiva dell’umanità, come unica via d’uscita verso una nuova era di pace e giustizia, e al tempo stesso celebra tutte le popolazioni indigene del pianeta, gli sciamani, i curanderos e le antiche civiltà, ma anche più semplicemente le persone vere. E’ dedicato al Sud del mondo e alla natura, che soffrono per garantire il “benessere” dei paesi ricchi, in attesa che il destino si compia, quale che sia.

Senza pensarci e con impulsiva onesta: il testo più difficile da redigere e perché, e la canzone con la musica che si è rivelata la più ardua da scrivere.
Non ho bisogno di pensarci e con impulsiva onestà ti dico: in entrambi i casi “Back to the Monkey”. In questa canzone mi sono misurato con il Funk e con il Funk Metal, generi che adoro, ma che per suonarli come si deve, bisogna essere come minimo neri o meticci e vivere in America. Un po’ come il blues, è il sangue africano che fa la differenza. Io sono bianco e vivo in Europa. Per realizzare “Back to the Monkey” ho passato intere giornate ad ascoltare gruppi come Infectious Grooves, War, Funkadelic, Suicidal Tendencies, Grand Funk Railroad, ma lungi da me anche solo pensare di avvicinarmi a questi colossi. “Back to the Monkey” prende ispirazione da tutti questi gruppi ma, ancora una volta, torna al Sudamerica per tirare fuori un funky più alla portata. Sono stati gli argentini Todos Tus Muertos, soprattutto nei primi album, e Los Fabulosos Cadillacs, a fare da modello per un funk più latino. Più semplificato rispetto a quello statunitense, ma pur sempre un marchio di fabbrica del Sudamerica.
Quanto al testo, anch’esso è stato difficile perché l’idea era quella di far entrare in sole due strofe un’infinità di tempo. Basti pensare che si parte dalla scimmia, per arrivare all’uomo contemporaneo. Circa 5 milioni di anni, in due strofe. Non è stata una passeggiata!

Il nome della band si riferisce ad una pianta con effetti “destabilizzanti” per la mente? La stessa grafica così psichedelica si rifà a lei, ma anche alla cultura musicale hippie. C’è qualcosa in “Jester in Brick Lane” di quell’epopea?
Visto che mi offri lo spunto, colgo qui l’occasione per sottolineare l’egregio lavoro di artwork della mia ragazza, Mara Pignataro (nel booklet con lo pseudonimo “Ahmara”) che ha conferito all’album una grafica eccezionale.
La Yerba del Diablo è una pianta psicotropa curativa, considerata “sacra” presso alcune popolazioni native dell’America come gli Yaquì e i Mapuche. E’ utilizzata nei rituali sciamanici per sperimentare nuovi stati di coscienza e addentrarsi in sconosciuti mondi paralleli.
C’è molto della cultura hippie in questo album. Non potrebbe essere altrimenti dal momento che ho un’intera parete di gruppi dei Seventies. E la psichedelia è uno dei generi a me più cari. Stravedo per bands come Tangerine Dream, Pink Floyd,  Amon Duul, King Crimson, Area e tanti altri.
Gli anni ’60 e ’70 rappresentano l’apice indiscusso del Rock, dell’innovazione e della creatività. Da lì in poi si è cominciati a scendere fino ad arrivare all’inquietante immobilismo musicale dei nostri tempi.
La cultura hippie traspare anche dalle tematiche trattate, perché credo che il mondo di oggi abbia bisogno non solo di tornare indietro, ma anche di mettere in pratica quei precetti di pace, uguaglianza, libertà che all’epoca svanirono in un’utopia. Certo a livello artistico sarà difficile raggiungere tale grandezza creativa, ma con un risveglio delle coscienze potremmo fare molto a livello pratico. Ad esempio rinunciando al consumismo sfrenato. In questi tempi di crisi globale, la “decrescita” è inevitabile. Sta a noi scegliere se viverla come una tragedia o come un’occasione unica per riscoprire le nostre radici e il nostro legame con la natura.

Cosa significa oggi per un artista-band emergente fare un album, quindi investire in un supporto fisico, realizzare video (ne farete uno?), vendere l’album anche nel formato digitale? Di recente ho intervistato un navigato musicista death metal e gli ho chiesto cosa ne pensava della routine scrivere canzoni-registrarle-suonarle dal vivo. Lui ha risposto che alla fine adora tutto questo, sospetto che per gli Yerbadiablo o per qualsiasi band nuova sia un lavoro notevole, dettato dall’ambizione e dall’impulso artistico sicuramente, ma soprattutto è un lavoro enorme. Mi sbaglio?
Un video non è ancora in programma, diciamo che mi piacerebbe.
Investire in un album, soprattutto se si è soli, richiede sacrifici economici e molta energia, pazienza e concentrazione. Ma se si crede in sé stessi e in ciò che si fa tutto risulta più semplice e affascinante. E alla fine con un po’ di fortuna si trova un’etichetta (nel mio caso la logi(il)logic che non smetterò mai di ringraziare) che crede nel progetto e si occupa della promozione e della distribuzione in formato cd e digitale.
Come avrai capito, non sono un’amante della modernità e della tecnologia. L’era digitale non potrà mai eguagliare il caro vecchio vinile, ma non si può certo pensare di suonare senza restare al passo coi tempi, quindi tanto vale guardare il bicchiere mezzo pieno. Internet e i download degli album ti permettono di arrivare ovunque in pochi secondi. Ed è sempre meno raro vedere gruppi che emergono dal web e si fanno strada. Anche se, a mio avviso, sono sempre più rari quelli che realmente meritano successo.
Quanto alla routine scrivere canzoni-registrarle-suonarle dal vivo, ti devo confessare che non amo molto questo genere  di routine. Quello che adoro è scrivere canzoni, poi registrarle, ma non amo molto suonarle dal vivo, problema che al momento non si pone essendo una one man band!
Non ci crederai, ma qualunque canzone io scriva, una volta registrata per me è già roba vecchia. Non amo suonare canzoni già fatte, perché trovo la mia completa soddisfazione solo nella fase compositiva. Ho sempre bisogno di stimoli nuovi, di nuove idee, di sperimentare. Mentre detesto ripetermi. Inoltre sono una persona introversa che non ama esibirsi in pubblico. Per questi motivi penso più ad un altro album che ad un’attività live, a video etc…ma chissà cosa riserva il futuro.

Devo chiederti cosa leggi, i tuoi autori preferiti, romanzi, opere. Se ho ben capito la letteratura una sua componente in quello che è Yerbadiablo.
Leggo moltissimo. Il mio genere preferito è il “realismo magico”, dove fatti ed elementi reali  (storici, politici, sociali, culturali) si mischiano a elementi fantastici e magici. Ho letto in lingua originale quasi tutti i libri di Marquez, di Isabel Allende, Vargas Llosa e compagnia.
“Jester in Brick Lane” è fortemente influenzato da queste letture, si può dire che trasuda “realismo magico” dall’inizio alla fine. Esoterismo, paganesimo e antichi rituali si alternano infatti a temi di attualità.
Ho letto anche tutti i libri di Carlos Castaneda dove la Yerba del Diablo assume spesso il ruolo di protagonista. E poi ancora Orwell, Herman Hesse, Hernan Huarache Mamani, Jodorowsky, Rousseau (di cui sono un fervente seguace), Bruce Chatwin e svariate letture esoteriche come “Magick” di Aleister Crowley.
La letteratura ha avuto un peso enorme nella realizzazione di “Jester in Brick Lane”. “Z’étoile”, per fare un esempio, prende il nome dalla cultura Voodoo che fa da sfondo alle vicende del libro “L’isola Sotto il Mare” di Isabel Allende. “Winston Smith” è il protagonista del profetico “1984” di Orwell, mentre “Panamerika” cita espressamente “Las Venas Abiertas de America Latina” di Eduardo Galeano.
Ma quella che considero la più grande opera mai scritta per la magia che si sprigiona dalle sue pagine è “Il libro Tibetano dei Morti”. Un libro alla cui analisi e comprensione andrebbe dedicata tutta la vita. E forse non basterebbe.

Grazie per l’intervista e grazie per “Jester in Brick Lane”, lo sto consumando. L’ultima domanda è un guardare negli occhi i lettori. Aspettano le tue parole.
Grazie a te Alberto per l’intervista. Mi fa enormemente piacere sapere che “Jester in Brick Lane” lo stai consumando. É la più bella frase che un musicista possa sentirsi dire.
Ai lettori su “Jester in Brick Lane” e sul progetto Yerbadiablo ho già detto tanto in questa intervista e credo che chiunque si sia incuriosito andrà ad ascoltare qualcosa di questo lavoro.
L’unica cosa che mi preme dire è che la “libertà”, non solo la libertà artistica, è la cosa più preziosa che abbiamo e ognuno di noi ha il diritto di esprimerla come meglio crede. Così come i confini geografici e i pregiudizi limitano lo scambio tra culture diverse, i confini musicali creano insopportabili barriere che limitano, le idee, la creatività e la sperimentazione.
“Jester in Brick Lane” non conosce barriere e chi lo apprezza come te, Alberto, dimostra chiaramente di condividere lo stesso concetto.
Speriamo di essere in tanti. La musica in generale ne trarrebbe enorme beneficio!
Grazie ancora e buon lavoro.

(Alberto Vitale)

Recensione