Che serata! Che energia sonora! Che potenza di fuoco!

Quattro entità rappresentative del death metal attuale e storico compressi in un unico devastante evento!

È la prima di due giornate al Revolver Club, una serata che vede un’ottima affluenza di gente che si alterna tra transenna, pogo e banco bar: il metallaro estremo ama essere grezzo, ha bisogno di birra, di Jack Daniels, di Jägermeister per smaltire la carica energetica che quattro bands come queste sono in grado di scatenare!

Aprono i furibondi Almost Dead, band che amo alla follia: li conobbi in occasione di un fest black metal (report qui), nel cui bill furono inseriti pur appartenendo ad un genere completamente diverso, sia musicalmente che esteticamente… e finii per riscoprire la purezza del death d’altri tempi. E poco prima dello show, il front man Tony Rolandelli mi ha fatto una promessa: abbiamo uno show che spacca, vedrai che casino! Promessa mantenuta senza riserve, perché questa band è pura dinamite, esplosività senza paragoni, un dinamismo superlativo, con un batterista di altissimo livello ma completamente fuori di testa e quel front man che ora ti sta urlando in faccia dal palcoscenico, mentre dieci secondi dopo ti arriva addosso da dietro, per farti risucchiare dal mosh che lui stesso ha instigato e provocato (durante l’esibizione è andato a far casino un po’ ovunque, banco merch degli Atheist compreso!). Uno show puro, essenziale, dinamico, un superbo esempio di death metal americano, quello vero, puro e dannatamente travolgente!

Foto: Monica Furiani Photography

Death metal americano? Ecco che salgono sul palco gli ungheresi Monastery: il loro death comparato a quello degli opener mette subito in mostra la differenza tra death d’oltre oceano e death dell’est Europa! Un concerto più oscuro, meno dinamico ma più profondo… si vede subito che il death americano ama divertirsi e divertire, nonostante le tematiche truci dei brani, mentre -come da tradizione- il death Europeo, specialmente quello proveniente dall’ex cortina di ferro, prende tutto molto più sul serio, cosa che si percepisce nel sound, nel modo di cantare, nell’atteggiamento intenzionalmente minaccioso.

Foto: Monica Furiani Photography

Gli Atheist. Wow. Comprai quel capolavoro intitolato “Unquestionable Presence” quando uscì, nel lontano 1991. Cazzo, il tempo passa: io avrò avuto 19 anni, Kelly Shaefer aveva poco più di vent’anni… e penso che nessuno di noi, né io né Kelly, si sia potuto rendere conto di cosa stavano facendo gli Atheist con quei lavori dei primi anni ’90. Ricordo cheera death metal super figo, super strano, super provocante… e forse solo ora, riascoltandoli, mi accorgo di quale dannata genialità era quel death farcito di stravaganze di derivazione jazz… o piuttosto jazz farcito di death metal E Kelly non molla. Non può suonare la chitarra per un problema al braccio, è praticamente rimasto solo perché l’altro membro ancora annoverato nella line up -il batterista Steve Flynn- non è nella carovana del tour, ma non si è certo perso d’animo e -oltre agli altri suoi progetti, come Till the Dirt– eccolo circondarsi da talentuosi musicisti (tutti giovanissimi, potrebbero essere suoi figli) e partire per un tour nel quale lui è immagine, è leader, è voce per quel manipolo di virtuosi che interpretano con rinnovato vigore i brani capolavoro dei primi tre dischi della band. Figli? Beh, sul palco Kelly scambia sguardi e abbracci con i ragazzi, sembra quali dire loro ‘Forza che state tributando la gloria degli Atheist’ oppure ‘dai, forza, stai suonando in modo grandioso, continua così’, o magari ‘visto quanta gente attira ai concerti questi nonnetto?’… e tutto questo mentre ragazzi coetanei (età con range 20-30) dei band mates di Kelly sono in transenna a cantare a squarcia gola canzoni scritte e registrate PRIMA della loro nascita. FAVOLOSO. Semplicemente favoloso. Questa è la passione, questa è la musica, questo è il vero metallo, estremo, tecnico, avant-garde o melodico che sia.

Foto: Monica Furiani Photography

Ed ecco il Canada, i Cryptopsy, altra band in giro da molto tempo, dalla prima metà degli anni ’90, con molti più dischi dei colleghi dalla Florida, ma con una line up più tormentata, tanto che della formazione originale è rimasto solo il batterista Flo Mounier, mentre tutti gli altri si sono aggiunti alle file nel nuovo millennio, garantendo tuttavia una formazione stabile da almeno 15-20 anni. Il vocalist Matt McGachy domina la scena, cavalcando i brani dell’ultimo “As Gomorrah Burns” (recensione qui), mentre la band sputa in faccia del pubblico scatenato valanghe di death metal brutale, suonato con maestria e diabolica foga. Pubblico obbediente: quando Matt incita la mosh, ecco che iniziano a volare vertebre e rotule, mentre Tony Rolandelli, stanco di presenziare al banchetto del merch, decide di spalleggiare i compagni di tour, esibendosi in numerosi stage diving con conseguente innalzamento del livello di violenza tra le prime linee.

Foto: Monica Furiani Photography

La furia del sound estremo di dilegua. Il palco viene smontato, mentre tutti gli artisti -un felicissimo Kelly Shaefer in primis-, chi prima chi dopo, escono dal backstage per incontrare i fans, per un autografo, per una foto di rito.

Nel frattempo io sono ancora al banchetto merch degli Almost Dead, banchetto che sembra essersi trasformato in un secondo bar, visto che numerose bottiglie di Jägermeister venivano prosciugate, passando per una infinità di shot (con bicchieri da birra) offerti a chiunque osasse avventurarsi nei paraggi.

Finito lo Jägermeister, il bar degli Almost chiude, per migrare in massa al bar del locale, dando seguito alla follia.

L’epilogo di tutto questo lo possiamo tralasciare: credo non ci voglia poi tanta immaginazione…

(Luca Zakk)

PS: Grazie Alex!