copmartiria3(My Graveyard Productions) Che MetalHead e i Martiria abbiano un rapporto privilegiato si è capito dal notevole numero di articoli che abbiamo dedicato alla band romana: recensione di “On the Way Back” (QUI) e relativa intervista (QUI), recensione di “Roma SPQR” (QUI) e relativa intervista (QUI)… oggi ci occupiamo della riedizione, ad opera della sempre lungimirante My Graveyard Productions, del debut della band. Era infatti il lontano 2004 quando la Hellion Records pubblicò “The eternal Soul”, che a mio giudizio è il miglior album che i Warlord abbiano mai scritto! Scherzi a parte, nel primo disco dei Martiria si respira più che altrove il potente influsso di Bill Tsamis, e la scaletta si rivela piena di piccoli gioielli che meritavano una nuova edizione (l’originale è infatti esaurito da tempo). Non saprei da dove iniziare per descrivervi le meraviglie di questo disco… la mia preferita è da sempre “Babylon Fire”, capolavoro di doom decadente e malinconico che metterei vicina a “Soliloquy” dei Warlord, ma i miei vicini conoscono a memoria anche la maestosa “The ancient Lord” (da brividi il ritornello) e il pessimismo colto e radicale di “The most Part of the Men” (che si rivelano naturalmente, secondo l’antichissima sapienza greca, malvagi). “Winter” è un capolavoro lirico, un tipo di brano che gli stessi Martiria non hanno mai più osato riproporre; “Roman and Celts” ha una solennità sui generis, che sta nelle tastiere iniziali come nella monolitica coda strumentale. E che dire di “Arthur”, che porta al limite estremo le capacità vocali di Rick Anderson? Questo disco era già indispensabile così com’era, ma in questa nuova edizione (limitata a 500 copie) si presenta anche con lo storico live che la band tenne al primo Play it Loud, quello del 2009, l’unico concerto che abbia mai visto la partecipazione di Anderson (che come tutti sapete è tornato in forza ai Warlord). Ero ovviamente in prima fila e posso garantirvi che la prestazione è riproposta in modo assolutamente fedele: i sette brani, scelti equamente fra i tre dischi allora editi dalla band, suonano immediati e tridimensionali, e posso solo lamentare che il folto pubblico, presente e partecipe, sia come scomparso dall’insieme. Anderson era forse un po’ impacciato sul palco, ma la sua esecuzione è impeccabile e sentita, soprattutto sulla conclusiva “The Age of the Return”. Che altro aggiungere? Fatelo vostro prima che sia troppo tardi!

(Renato de Filippis) Voto: 8,5/10