(Autoprodotto / Hypogea Invictus / Venetic Black Metal Front) Otto anni, otto solstizi d’inverno sono passati dal secondo capitolo della band veneta, il cui nome inneggia al maestoso fiume Brenta, nel suo nome antico e germanico, un fiume citato da Dante, con ruoli importanti in ogni epoca, quella dei Romani compresa, un fiume la cui storia e i ricordi ancestrali delle terribili alluvioni subite dalle popolazioni del Veneto centrale hanno portato alla coniazione del termine ‘Brentana’ per indicare un’alluvione. Otto inverni, dicevo: i Brünndl sembravano scomparsi, tornati a disperdersi nei boschi delle montagne che scolpiscono la valle dentro la quale scorre il Brenta. Ed ora, tutto ad un tratto, con una promozione quasi inesistente -in perfetta linea con una cerchia di eletti, una legione nera tutta nostra- ecco che compare il terzo album, il terzo capitolo di questa avventura di black metal puro, essenziale, ruvido, capace di narrare in quattro lingue (e dialetti) di camminate epiche e dannate attraverso i monti che hanno dato la natalità a ciascuno dei quattro elementi della band. Oscura e rocambolesca “Vaüchtantèmpel”, tuonante ed epica “Nella notte argentata, un Ultimo Sentiero”, irresistibile l’intimità malinconica di “Hakhenwaltz”. È impossibile non pensare ai gloriosi Windir con le melodie contorte di “Streve: dar Staíkh héntenersínkh”, si rivela inquietante e tenebrosa “Putovanje”, mentre “Baita” con il suo ipnotico incedere lascia trapelare una nostalgia infinita. Black metal di livello superiore con la lunghissima “Tondarstula”, prima della conclusiva “Morgenstern odar de Nort-Morgont hymn”, un brano ricco di una speranza in grado di rafforzare i legami con la tradizione della propria terra. Black metal avvincente, poderoso, intenso, dannatamente puro, schietto e diretto… oltre che essere enormemente arricchito dal folk, dal folklore locale, da atmosfere vere, reali, terrene, sensazioni che chi è nato e vive in queste terre -come il sottoscritto- altro non può che percepire con tutti i sensi. Qui non si venerano i demoni o diavoli: qui si adora la terra (‘Torneranno i prati solo se li ripercorrerai’), le usanze (‘Có l’è buio, có l’è fredo – trem zo graspa e vineo’), le origini, la discendenza, la fratellanza (‘Có son soeo, có son agro – ciamo su un me fradeo ‘), l’onore, lo spirito che ama disperdersi nella natura selvaggia (‘Forse ormai nella notte, non mi resta che vagare’), quell’essenza poetica che è parte essenziale di ogni uomo delle montagne (‘sognatore senza età, fra le crode’), quel richiamo irresistibile verso casa (‘Un trodo nascosto, la baita e il mio bosco’), anche dopo un infinito vagabondare in terre remote e luoghi foresti.

(Luca Zakk) Voto: 9/10