(Diamonds Prod.)Il problema di quasi tutte le band hard & heavy, ma anche impegnate sui generi più pesanti, è il timbro riconoscibile del cantante. A dire il vero questo è spesso il punto di forza, la firma indelebile, l’impronta riconoscibile ed univoca… ma è anche una potenziale tragedia quando la line up varia proprio nei paraggi del microfono. Se la cosa è meno evidente su certi generi più estremi (ad esempio il Black Metal, basti pensare ai Gorgoroth), la cosa diventa molto critica quando la voce è chiara e forte, melodica e coinvolgente. La storia lo insegna: Iron Maiden senza Bruce? Mötley Crüe senza Vince? Sappiamo tutti come è andata a finire. Certo, ci sono anche le mosse che alla fine sono risultate vincenti, cosa successa per i Van Halen o i Black Sabbath (anche se in entrambi i casi ad un certo punto c’è stata la reunion con il vocalist storico), ma è sempre un gran problema quando cambi quello che sta davanti, la faccia e la voce della band. La puoi cambiare completamente anche a livello di stile e alla fine magari va tutto bene (come fu per i Van Halen)… oppure va tutto a quel paese, minando la vita stessa della band (come fu per Mötley Crüe). Poi ci sono bands come gli Skid Row che esistono ancora, pubblicano dischi, sono attivissimi… ma sono molto lontani dal successo che ebbero con Sebastian Bach, tanto che c’è gente che ancora spera nella reunion con il vocalist del grande successo iniziale. Vi immaginate i Metallica senza James? Gli Europe senza Joey? Magari queste band possono anche essere di grado di fare un gran disco, magari con un vocalist di gran lunga migliore… ma cosa diranno mai poi i fans storici? Ecco, i potentissimi heavy rockers italiani Ruxt hanno cambiato proprio il cantante, dopo tre album possenti e accattivanti. E qui iniziano i (miei) problemi. Certo, direte voi, non è possibile comparare i Ruxt ai nomi sopra citati. Sarà vero? Non credo, almeno io non sono d’accordo in quanto un album bello ed irresistibile, al di là del successo commerciale e mondiale, rimane un album bello ed irresistibile, un album che amo ascoltare, un concentrato di musica che riesce a regalarmi emozioni. E questa cosa, questa emozione è emersa puntualmente con tutti i precedenti album dei Ruxt, tanto che in ciascun testo scritto nelle varie occasioni (qui, qui e qui) ho sempre esaltato la poderosa voce di Matt Bernardi. Ora al microfono c’è K-Cool, un’ugola potente, uno screamer pazzesco, un rocker che prende certe cose di Dio trasformandole in un qualcosa di furioso, più street, riuscendo tuttavia a ricavare parentesi con toni alti più vicini a singer hard rock o appartenenti al symphonic metal di stampo magari finlandese. Un vocalist potente ma completamente diverso dal precedente, il quale legava indissolubilmente con i riff che la band riusciva a costruire con grinta, rabbia, quel sapore desertico di polvere che ti entra in gola, grattando e graffiando senza pietà. “Labyrinth of Pain” è obiettivamente un ottimo album, molto curato, molto intenso… tanto che riesce a cucirsi molto bene attorno al nuovo cantante, dando vita a dei Ruxt che -in fin dei conti- hanno poco a che fare con quelli degli anni precedenti. Brani come “November Rain” sono incalzanti e ricchi di energia. Risulta stupenda la malinconia di “Simply Stranger”, molto interessanti gli arrangiamenti di “Waiting”. Poi ci sono brani affascinanti quali “Love Affair”, la title track o la superlativa strumentale “Butterflies” posta in chiusura dell’album. Ma qui è tutto nuovo. È un album di cambiamento. Un album che musicalmente non impatta come fecero i primi (due), un album al quale manca quella caratteristica identificativa, quel vocalist al quale mi ero abituato. Certo, i Ruxt sono grandi artisti, il nuovo membro ha un grande talento… ma credo che a me serva ancora del tempo per abituarmici.

(Luca Zakk) Voto: s.v.