(Black Lodge Records) Terzo album, il secondo con la Black Lodge, per i melodic blacksters svedesi Wormwood, i quali intensificano proprio quella loro componente melodica, senza mai dimenticare un’aura folk, cosa chiara visto che vengono praticamente confermati gli ospiti del precedente album “Nattarvet” (recensione qui), ovvero il violinista Martin Björklund (il violinista dei Månegarm, band nella quale il chitarrista dei Wormwood Tobias Rydsheim milita come live session) e Moa Sjölander alle backing vocals femminili; un altro ospite è presente in questo disco, sempre nei paraggi delle backing vocals, e si tratta dell’italiano Walter Basile (Effess, ex Black Sunrise, ex Morito Ergo Sum); rimanendo poi in tema dei membri del progetto, è da segnalare che negli anni la line up è rimasta praticamente invariata, fin dal 2014, con unica eccezione il nuovo bassista Oscar Tornborg (Withershin) entrato in formazione l’anno scorso, avendo tuttavia già precedentemente militato nella band come session live. Questa costanza, questo gruppo di artisti uniti, rivela una compattezza nel gruppo e questo è percepibile nella progressiva crescita stilistica e tecnica la quale emerge chiaramente in questo nuovo lavoro. Tematicamente l’album ruota attorno la forza distruttiva dell’umanità, la totale incapacità di adattarsi alla nostra natura conducendoci verso una meritata tragica morte, concetto ben esposto dall’incalzante ed angosciante opener “The Archive”, il cui video riesce a rendere ancor più impattante e tragica la vicenda narrata. Il brano, ovviamente di matrice apocalittica, si inerpica trionfalmente tra riff pungenti, tremolo coinvolgenti, divagazioni melodiche eccitanti, growl tuonanti, clean urlate, senza dimenticare un intermezzo soft dal gusto deliziosamente prog. Seducente e ricca di chitarra solista “Overgrowth”, altro brano con un intermezzo provocante e suggestivo. Drammatica e trascinante “End of Message“, teatrale e folk l’apertura di “My Northern Heart”, con quegli strumenti etnici, prima di un’esplosione melodic black tanto brillante quanto malinconica, tanto energetica quanto decadente, un pezzo perfetto per cantare la gloria degli antenati. Torna il folk sulle ritmiche con l’aggiunta del delizioso violino su “Ensamheten”, un incalzare marziale e glorioso che per certi versi strizza l’occhio ad altre bands estreme svedesi, il tutto per un brano che esprime sentimenti verso una terra in rovina. Si cambia tematica con “The Slow Drown”, pezzo che esplora la demenza della psiche umana, con una melodia pungente, ritmiche irregolari ed una chitarra veramente avvolgente. In chiusura la lunga e tuonante “The Gentle Touch of Humanity”, tematicamente un brano che esplora lo scenario di rinascita posta apocalittica, accentuando un black pulsante pur mantenendo una intensità melodica favolosa. Album musicale, irresistibile, maledettamente catchy: un black intenso anche se mai spinto estremo, sempre scenografico, sempre pregno di una atmosfera creata con intelligenza, evitando l’uso di keys o particolari effetti, puntando piuttosto sulle grandi capacità dei musicisti, dei coristi e delle componenti etniche, dando spazio ad evoluzioni progressive molto ben amalgamate nel genere principale. Un album eccitante, capace di stimolare sia rabbia che sentimenti, sia ribellione che riflessione, abbracciando in modo perfetto e ricercato il contenuto dei testi.

(Luca Zakk) Voto: 8,5/10