(BMG) Ci siamo… l’attesa, davvero troppo lunga, è giunta alla fine e finalmente si può ascoltare il nuovo lavoro del cantante degli Iron. Scritto evidentemente in un arco di tempo molto lungo, impossibile non riscontrare nel variopinto lavoro dell’artista una serie di riferimento ai differenti momenti della sua carriera. Manca, ahimè, tutta quella vena prettamente rockettara anni ’80 che ha contraddistinto i due lavori di inizio carriera, ma siamo nel 2024 e non si può pretendere/osare così tanto… Veniamo dunque all’album. Anticipo già che questo disco è praticamente la prosecuzione dei due precedenti, con alcuni elementi più pomposi e sfarzosi tipici degli ultimi Maiden, pur lasciando sentire una impronta 100% Dickinson. Il primo singolo estratto e fatto circolare è anche l’apertura dell’album. E non poteva essere altrimenti, con un brano ruffiano quanto immediato, eppure convincente sin dal primo ascolto. “Many Doors To Hell” non si discosta molto dalla formula, proponendo un brano corale e vagamente più ottantiano del suo predecessore. Con “Rain On The Graves” Bruce mostra di voler giocare con i vari stili, confezionando un divertissement dalle atmosfere horror, controparte di un video altrettanto spassoso… Con “Resurrection Men” lo stile cambia di colpo e si fa più solenne. Un Dickinson più impegnato, con un ritornello tutt’altro che semplice e scontato, per una canzone atipica, dal sapore sudamericano. Brano comunque dalla struttura classica, senza troppi fronzoli e piuttosto diretto. Le orchestrazioni si fanno più intrusive e pesanti con “Fingers In The Wounds”, prima semi-ballad dell’album. Le tastiere accompagnano un brano arrangiato in modo malinconico e con un ritornello da stamparsi in testa prima che la traccia sia finita. Una canzone che richiama gli ultimi, bellissimi, pezzi di “Brave New World”, con un’atmosfera vagamente orientale negli arrangiamenti. Siamo a metà album e arriva una traccia riarrangiata da “The Book Of Souls”. “Eternity Has Failed” è cambiata leggermente non solo nel nome, ma devo dire che questa versione leggermente più lenta ma diretta è una curiosità gradita, un esperimento di Dickinson, che è riuscito a donare al pezzo una nuova, inedite, anima. “Mistress Of Mercy” riprende un sacco i toni di “Accident Of Birth”, risultando probabilmente la canzone più pesante dell’intero album. Solo il ritornello alleggerisce in parte un brano comunque molto riuscito in ogni sua parte. Probabilmente la canzone più dickinsoniana del lotto… La chitarra di “Face In The Mirror” nell’intro del brano fa capire che ci troviamo di fronte alla seconda balla del lotto, brano cantilenante e tranquillone, giusto per alleggerire l’atmosfera… Canzone comunque riuscita, completa e con un buon ritornello. Le ultime due tracce sono a mio avviso piuttosto pesantine, specie se inserite alla fine di un lavoro comunque piuttosto corposo. Entrambe le tracce risultano inoltre più adatte come bonus track che non come tracce ufficiali dell’album. Questo perché sono leggermente diverse dal resto del cd, risultando irrimediabilmente quasi fuori contesto. Si tratta di due ballate piuttosto orchestrate, in cui il cantante cerca di mostrare le proprie doti canore in modo più controllato e pacato, senza però, a mio avviso, arrivare a colpire pienamente il segno. Sarebbe stato forse più proficuo, per il baricentro dell’album, concludere con l’ottava traccia, alla fine della quale si ha la sensazione che il lavoro ha già detto tutto quello che doveva. Prova canora, comunque, davvero buona, un’ottima produzione per un album che ha un unico difetto, ossia è uscito davvero tanti anni dopo il predecessore. La sensazione è che Dickinson avesse davvero tanto da dire, forse troppo per un’unica uscita discografica…

(Enrico MEDOACUS) Voto: 8/10