copdavidbowie(Columbia) Chi scrive non è un appassionato di David Bowie, e questa non è una webzine che si dedica in prima battuta al rock: tuttavia, mi sembra giusto che MetalHead paghi un (seppur minimo) tributo al Duca Bianco recensendo la sua ultima fatica. “Blackstar”, titolo rappresentato soltanto graficamente (la stella nera che campeggia sul fondo bianco della copertina, e sul fondo nero della costina), è il ventiseiesimo frutto di una carriera basata sul trasformismo e sulla costante evoluzione: appena quarantuno minuti, appena sette brani (di cui due già pubblicati negli anni passati, in mix relativamente diversi), ma comunque la manifestazione di una classe che si è mantenuta sopraffina fino – è proprio il caso di dirlo – alla fine. La titletrack è, senza mezzi termini, sublime: divisa in tre parti ben distinte, può essere considerata il vero testamento artistico di Bowie, che vuole sgombrare il campo da tutte le fallaci interpretazioni della sua persona (“I’m not a Gangstar, I’m not a Filmstar, I’m not a Popstar, I’m not a Marvelstar”… se vogliamo, tutte interpretazioni parziali di lui e del suo genio), e annunciarsi nella morte per quello che realmente è stato: la ‘Stella nera’ del rock. Una strofa parla senza dubbio del suo trapasso: “Something happened on the Day he died/ Spirit rose a Meter than stepped aside/ Somebody else took his Place and bravely cried”, parole che non mi sembrano indicare l’arrivo di un ‘successore’, piuttosto (ma magari sbaglio) un messaggio d’amore per la moglie, che resterà a splendere della sua bellezza anche dopo la scomparsa del marito, ma nel suo perenne ricordo. Nervosa “’Tis a Pity she was a Whore”, con un sax che sale e scende (e nel finale si sfrena) sul cantato di David, ridotto in questo caso al minimo e molto artefatto. Segue poi “Lazarus”: chi non la conosce, chi non ha visto l’inquietante video? Un ritmo che ha qualcosa di nostalgico e lontano, un altro testo ‘profetico’ che inquieta: “Look up here, I’m in Heaven/ I’ve got Scars that can’t be seen/ I’ve got Drama, can’t be stolen/ Everybody knows me now”. Con “Sue (or in a Season of Crime)” siamo ben oltre i confini del rock, dalle parti di un jazz elettronico; è sperimentale anche “Girl loves me”, addirittura con dei punti di contatto con il drum’n’bass. È ancora il sassofono il protagonista della cangiante ballad “Dollar Days”; la conclusione è affidata al class rock sinfonico di “I can’t give everything away”, un brano finissimo, con un ritornello bello e cantato in modo quasi commovente, che sancisce il definitivo addio del Duca Bianco dal suo pubblico. Prima che arrivino le raccolte, i nastri inediti miracolosamente scovati negli studi di registrazione, i live dimenticati del periodo berlinese e tante altre ‘rarità’ per spillarvi un po’ di soldi, godetevi l’ultimo ‘vero’ baluginio della Stella Nera: il maggiore Tom vi sarà grato mentre si allontana per sempre nello spazio.

(René Urkus) Voto: 8/10