coplandskap(Iron Bonehead ) 500 copie di sensuale vinile per trenta-tre minuti di micidiale doom, avvolgente ambientazioni, il tutto pieno di emozione, crudele freddezza, avvolgente tepore, estrema incisività. I Landskap si formano nel 2012, a Londra, e arrivano al debutto con questo album dal titolo sintetico: “I”, il primo -speriamo- di una determinata serie di doom psichedelico a tratti lento lento, sabbathiano, composto e suonato con cura nei dettagli e passione per il suono. Le influenze dichiarate ci sono tutte: rock fine ’60 e inizi ’70. E nomi cult come SerpentCult, ma meno grezzi, Thee Plague Of Gentlemen e Pantheist, ma senza la componente brutale. E le influenze non sono semplicemente derivative, ma è la line up stessa a renderle percepibili. In questa band infatti militano Kostas Panagiotou (Pantheist) a tastiera e organo, Frederic Caure (SepentCult) a basso e chitarre, ma anche musicisti provenienti da altri act che ispirano i Landskap: Paul Westwood (Fen) alla batteria, George Pan (Father Sun) alla chitarra solista (questi ultimi due sono i membri fondatori della band) e Jake Harding (Dead Existence) alla voce. Questa specie di supergruppo della dannazione e del doom, dello sballo e dell’eccesso sonoro, da vita a questo progetto ex novo, dove la pesantezza del doom è addolcita da melodie e assoli di chitarra molto coinvolgenti, anche se sempre tristi… mentre tastiere ed un bellissimo organo danno vita a suoni ricchi di emozione, liturgici in forma deviata, che appunto fanno ricordare certe sonorità dei Black Sabbath. Il lato A è occupato da “A Nameless Fool” e “My Cabin In The Woods” (quest’ultimo titolo è stupendo!) crea ansia, angoscia, con melodie che si materializzano e diffondono in perfetto stile ed equilibrio. La prima traccia che dura oltre gli undici minuti è ricca di ritmica a cavallo tra aggressività ed sogno, anche grazie all’ottima voce pulita e eterea del vocalist, mentre la corta seconda traccia (meno di tre minuti) è una divagazione strumentale piena di speranza, sogno… un autentico trip. Il lato B apre con “Fallen So Far”, pezzo quasi progressivo che paga un giusto tributo a bands storiche quali Deep Purple, Uriah Heep ed ancora Black Sabbath; segue “To Harvest the Storm”, oltre dodici minuti di musica dove la band si rivela per le immense capacità compositive. C’è molto anni ì70. C’è sento molto Hawkwind, tantissimo Doors, ma anche del krautrock, quel genere rock elettronico tedesco che si è diffuso a fine anni ’60. Un pezzo complesso, con innumerevoli evoluzioni, un crescendo che porta ad un finale glorioso. Una perla musicale ricca di feeling vintage, un salto indietro nel tempo con una componente moderna brillante. Un disco per tutti gli amanti di quelle sonorità rese eterne da molte delle band sopra citate.

(Luca Zakk) Voto: 8/10