LOU REED & METALLICA – “Lulu”
(Warner Rec.) Frank Wedekind era un drammaturgo tedesco e la storia di “Lulu” è stata ricavata da due sue opere: “Lo Spirito della Terra” e “Il Vaso di Pandora”. (altro…)
(Warner Rec.) Frank Wedekind era un drammaturgo tedesco e la storia di “Lulu” è stata ricavata da due sue opere: “Lo Spirito della Terra” e “Il Vaso di Pandora”. (altro…)
(Peaceville Records) Dopo l’esperimento autocelebrativo del 2010 “Evinta”, i My Dying Bride danno nuovamente notizie di se con una sola canzone di 25′, dal titolo “The Barghest O’ Whitby”. Dunque è una suite: una bella composizione, semplice nella struttura, ma capace di riassumere i tratti caratteristici dei My Dying Bride. Dopo una breve intro la musica avanza con un ritmo lentissimo, tipicamente doom e lacerato dal violino di Shaun Macgowan che compare a tratti, oltre ad un growling simile a quello che potrebbe emettere un ghoul. Poi tutto accelera, il riffing diventa sostenuto e Aaron Sainthorpe inizia la propria narrazione. Successivamente si ritorna nelle tenebre del doom angosciato, lento e tristemente melodico dei My Dying Bride per quasi 10′. Piccola sospensione e ritorna la lentezza maestosa e lo sviluppo del brano con le chitarre in esile crescita. La fase terminale, ovvero i circa 6′ finali, sono una marcia titanica con le chitarre del duo Glencross-Abé che vanno mano nella mano con la batteria di Shaun “Winter“ Taylor-Steels, reclutato per questa occasione. Al termine di questo viaggio è possibile affermare che “The Barghest O’ Whitby” è una release che celebra degnamente il nome My Dying Bride.
(Alberto Vitale) Voto: 7/10
(AFM-Audioglobe) Gli ucraini Morton, band creata dall’omonimo
polistrumentista e produttore Max, hanno ottenuto un tale successo nel paese
d’origine che la AFM, da qualche tempo assai attenta alla scena esteuropea, ha
deciso di ristampare il loro debut su scala internazionale. La band merita
sicuramente interesse, ma si stenta a riconoscere in essa la new sensation del
power metal europeo (come da qualche parte si è affermato). “Calling for the
Storm” rappresenta una interessante fusione di prog e power, a cui “Eaglemark”
aggiunge maggiore melodia. Indovinato il ritornello di “Brotherhood of Light”,
scelta non a caso come singolo e per la realizzazione di un video: sembra di
sentire dei Power Quest o dei Secret Sphere più ispirati! Doppia cassa a
elicottero dall’inizio alla fine in “Losing Faith”; il suono delle keys dà una
bella atmosfera eighties a “Burning Prisoner”. Arrembante “Black Witch”, divisa
in due parti la conclusiva “Wheeping Bell”: al momento slow segue una coda più
serrata e a suo modo d’atmosfera. Un outsider di belle speranze con un
potenziale tutto da confermare sulla lunga distanza.
(Renato de Filippis) Voto: 7,5/10
(Massacre-Audioglobe) In un ambiente true metal dove sempre meno defenders danno credito ai Manowar, la ricerca di un’altra band sullo stesso stile si è fatta ormai pressante. I tedeschi Messenger offrono molto in questo senso: non possono sostituire i Kings of Metal, ma costituiscono sicuramente un gradevole entr’acte nell’attesa dei nuovi eroi del metallo pesante! “See you in Hell” segue il debut “Under the Sign”, di ben cinque anni fa, ed è null’altro che una colata di heavy metal che piove sull’ascoltatore secondo gli stilemi più puri del genere. I nostri rispettano a pieno i tempi dei brani, i temi delle lyrics, l’abbigliamento con borchie e gilet a petto nudo (terribile la foto promozionale!), e la pacchianeria di certi atteggiamenti (durante i loro concerti decapitano una bambola-dj…): questo già li rende inevitabilmente simpatici, e se si aggiunge che il songwriting ha alcuni picchi notevoli il gioco è fatto. L’epica intro “Flames of Revenge” prelude alla titletrack: più che ai Manowar, in questo caso i nostri fanno pensare proprio ai Majesty di Tarek Maghary, recentemente tornati alla ribalta e proprio grazie alla Massacre Records. “Make it right” è più stradaiola, mentre qualche intelligente innovazione (l’assolo a cascata, la voce effettata e la batteria in controtempo) si trovano nell’interessante “Alien Autopsy”. Molto epica e per nulla scontata la lunga “Falconlord”, mentre è assai banale – ma comunque trascinante – “The Dragonships”. La vetta del disco è costituita da un’altra canzone epica e solenne, “Valkyries”, con un ritornello che i miei vicini conoscono a memoria. Si chiude con una cover di “Dr. Stein” degli Helloween: la versione digipack contiene altri tre brani per un totale di ben 75 minuti. Hail to Messenger!
(Renato de Filippis) Voto: 7,5/10
(High Roller Records) Con la rinascita dell’heavy metal risorge anche il vinile: e gli storici epic-metallers Manilla Road hanno ceduto alla High Roller Records i diritti per la realizzazione di 1000 LP della loro ultima fatica “Playground of the Damned”. Come spesso è accaduto nella lunghissima discografia di questa cult band, ci sono pochi legami fra un disco e l’altro: nell’opener “Jackhammer” il sound è del tutto diverso rispetto a quello dell’ultimo “Voyager”, e Shelton ci riporta sui lidi magici e direi edwardiani cari alla band. Peccato per la produzione veramente minimale, che evidenzia troppo i suoni alti della batteria. Molto più serrate “Into the Maelstrom” e la titletrack, che invece risentono di una atmosfera vagamente thrash. “Grindhouse” è un omaggio al genere di b-movies riportato in auge da Tarantino e Rodriguez: forse è il pezzo più debole del lotto per una certa staticità, ma si fa notare l’acido solo conclusivo. Si accennava ad Howard, ed ecco appunto che la bella “Fire of Ashurbanipal” mette in musica un suo racconto; in conclusione “Art of War”, dove ad una prima parte prevalentemente acustica ne succede una seconda 100% epic metal dura e marziale. “Playground” dovrà sgomitare parecchio per entrare nel cuore dei fans, attratti dai capolavori anni ’80 della band, ma non è certo da disprezzare.
(Renato de Filippis) Voto: 7/10
(Pulverised Records) Un nome del genere, “il morbo di Chron”, è davvero sinonimo di ruvido e malsano death metal. Con questa band svedese si ritorna indietro nei primi anni ’90 a sonorità maledettamente old style e dal carattere per niente patinato, ma totalmente sporco e grezzo. Dopo due demo nel biennio ’09-’11 e l’EP “Creepy Creeping Creeps” giunge l’attesa full “length” con nove pezzi dannati e infernali. Il drumming è compresso e ogni colpo proferito sulle pelli è un tuono che si abbatte nel tempestoso riffing che, in diversi frangeti, ricorda i Death di “Scream Bloody Gore”, ma anche gli Entombed dei primordi. Parlando di Entombed c’è da segnalare il patrocinio nella produzione dell’album da parte di Nicke Andersson e il mastering di Magnus Lindberg dei Cult Of Luna. Tuttavia un’attitudine molto più diretta la si avverte con pezzi come “Ways of Torture” e “The Allucinating Dead”. Lo scorrere delle canzoni è una via crucis di morte e devastazione, perché i Morbus Chron pestano di brutto e lo fanno in continuazione, mentre il cantato di Robba è quello di un invasato incatenato dentro ad un manicomio. Non c’è tregua in “Sleepers in the Rift”, salvo per qualche introduzione, in alcuni pezzi, più misurata e sinistra. Nessun compromesso, solo tanta furia infernale che potrà appassionare esclusivamente gli appassionati dell’old-style.
(Alberto Vitale) Voto: 6,5/10
(Massacre-Audioglobe) Dopo la sfortunata parentesi come Metalforce presso la Magic Circle di Joey DeMaio, i tedeschi Majesty tornano in pista con il monicker che li ha resi famosi fra i defenders, e per festeggiare pure il ritorno alla fedele Massacre danno alle stampe questo doppio e ricchissimo “Own the Crown”. Il primo cd costituisce un greatest hits di ben 75 minuti: dovendo pescare da soli quattro dischi, la band non ha certamente il problema di escludere qualcuno dei propri piccoli classici. In apertura, i nostri posizionano i tre pezzi da novanta della propria discografia: “Metal Law” nella versione del 2006, con la partecipazione vocale di Udo Dirkschneider, “Reign in Glory” e “Sword and Sorcery”. Ma c’è pure spazio per l’anthem “Keep it True”, per l’ambiziosa “Aria of Bravery” e per la grezza ma epica “Hellforces”, il brano che dà il titolo a quello che ritengo essere la migliore uscita dei teutonici. Il primo cd si chiude su due altri inni ingenui quanto trascinanti (“Heavy Metal Battlecry” e “Into the Stadiums”). Il secondo, della durata di un’ora, presenza anzitutto due inediti: la titletrack dell’intera raccolta è un mid-tempo cadenzato di epica genuina, mentre “Metal on the Road” è un altro brano autocelebrativo nel puro stile Majesty. È evidente la volontà di collocarsi in stretta continuità con quanto prodotto fino al 2006. Segue una nutrita serie di nuove versioni (anche di brani dei Metalforce o apparsi solo nei demo) e bonus tracks; completano la raccolta “Troopers of Steel” live (ma la folla sembra poco partecipe) e la riproposizione dello storico primo demo del 1998. I Majesty hanno un sound derivativo quanto volete, ma nell’ormai irreversibile crisi dei Kings of Metal si può puntare su di loro ad occhi chiusi.
(Renato de Filippis) Voto: 8/10