(Spinefarm Records) Gli Airbourne hanno attratto il mio interesse fin dagli inizi, fin da “Runnin’ Wild” del 2007; li ho sempre trovati divertenti, allegri, rockettari, un po’ cazzoni, con quel sound di periferia forgiato tra odore di olio esausto e motori con miscelazione grassa, tuonanti ritorni di fiamma e fresche birre conservate sotto ghiaccio, tra giubbotti da moto che puzzano di sudore e -perché no- donnine dai facili costumi. Praticamente hard rock sporco, il quale -in questo caso- suona dannatamente simile a quello degli AC/DC. Mi sono sempre chiesto come potesse esistere una band simile, che non solo è simile alla band di Angus Young, ma che proviene pure dalla stessa terra e che dichiara amare i ‘classici album della fine degli anni ’70 in pieno stile Oz Rock australiano’. Come poteva una specie di simile clone, leggermente più heavy e hard rock, riscuotere successo ed andare anche oltre il primo disco? Ho poi trovato la risposta da solo: questa roba riempie arene (il tour partito ad agosto e tutt’ora in corso è il festival dei sold out) e fa divertire tanto, non fa pensare (troppo) ed invita i fans a far festa, a bere, fumare e fare tanto casino. Praticamente gli Airbourne fanno quello che hanno sempre fatto i loro nonni, come gli AC/DC, solo che ci offrono una garanzia di continuità, vista e considerata l’età delle band classiche, in particolare quella della storica band australiana. Diciamocelo: bastano quattro accordi sferzanti, quel dannato quattro quarti marcio, quelle ritmiche pregne di pulsazioni ed un cantante carismatico, per far casino, far venir sete, per far muovere i culi, far eccitare, far bagnare, far uscire di testa! Dopotutto gli Airbourne, una band del nuovo millennio, sono riusciti a fare bene quello che provarono a fare acts quali i Johnny Crash nella seconda metà degli anni ottanta, progetto poi andato in fumo a causa di un’epoca complessa e nuove mode con nuovi interessi commerciali le quali non hanno poi retto la prova degli anni. Quindi non è una novità che questa roba attiri, spacchi e sia fottutamente efficace. “Boneshaker” è mezz’ora di musica con dieci brani i qui titoli non lasciano spazio all’immaginazione: “Burnout The Nitro”, “Sex to Go”, “Backseat Boogie”, “She Gives Me Hell”, “Switchblade Angel” o “Rock ‘N’ Roll For Life”. Dieci inni all’essenza più pura e -fortunatamente- più depravata del rock!

(Luca Zakk) Voto: 7/10