(Eisenwald) Sembra assurdo che gli olandesi Turia pubblichino un album il quale, secondo quanto dichiarato, è un ‘inno al richiamo senza età delle montagne inflessibili e all’esplorazione del calore soffocante che racchiude queste altezze ogni estate’. Sicuramente è un concetto che apparirebbe più sensato se proveniente da una band norvegese… francese, nord americana o anche italiana… certamente non olandese! Ma questo “quelli della luce”, strano e tagliente, è in grado comunque di descrivere bene quanto dichiarato, regalando tre quarti d’ora di black metal pazzo e geniale, come faceva già intuire “Dor” (qui), il debutto della band uscito cinque anni fa. Tuttavia “Dor” era più carnale, più diretto, più improvvisato e quella tendenza lo-fi accentuava quella malvagità intrinseca che qui è affidata a sonorità più raffinate, più curate, prodotte in maniera ottimale. Se un po’ manca quella ruvidezza del debutto, il nuovo lavoro è tuttavia una inquietante e pregiata perla di black ricco di violenza ma anche di atmosfera, capace di aprire parentesi introspettive e deliziosamente destabilizzanti, mortalmente corrotte. Infatti le montagne descritte non sono quelle delle verdi cime, delle rocce innevate, attraverso quei boschi umidi, silenziosi e ricchi di mistero come tipicamente evidenziato dalla tematica black più tradizionale: qui tutto è morto, andato. Devastato. I prati, i pascoli diventano scenari in fiamme. La vita muore e si decompone sotto il sole per il perverso piacere degli avvoltoi. Riverberi dissonanti, drumming senza respiro, muri di chitarre ritmiche, melodie provocanti ed assurde, il tutto con linee vocali strazianti, quasi il respiro di quei pascoli verdi che si arrendono senza speranza alla supremazia della morte. Furibonda “Merode”, instabile, corrotta, deviata… ma con una potenza sonora letale, linee di basso micidiali e quel mid tempo che emerge dal nulla, attorcigliandosi fino all’intermezzo asfissiante. Teatrale “Met Sterven Beboet”: la furia cieca si alterna a momenti mento tirati sferzati da teorie melodiche dal sapore folk e gitano, verso un altro mid tempo di matrice atmosferica in un contesto drammatico e quasi epico. La title track è lenta, depressiva, un massacro sonoro relegato nel fondo sopra il quale echeggiano suoni, ambientazioni, strumenti anche non convenzionali, il tutto verso un climax melodico remotamente ispirato agli Hawkwind. “Storm” è un brano affascinante, molto bello, in qualche modo un incrocio tra sonorità progressive e gli italiani Enisum, con un finale originale e decisamente scenografico mentre la lunghissima e conclusiva “Ossifrage” è una favolosa opera ipnotica: riff marziali accentati da malattie terminali avant-garde, cavalcate verso gli inferi in stile DSBM, aperture sonore post black, quasi di scuola francese. Un album che assorbe ogni residuo di aria pura. Un album che stringe forte fino all’esalazione dell’ultimo malinconico respiro. Un album pregno di sofferenza. Morte condannata come inevitabile punto di arrivo ma anche inneggiata come suprema ancora di salvezza.

(Luca Zakk) Voto: 8,5/10