copdarkage(AFM/Audioglobe) Piuttosto noti in Germania ma non qui da noi (ed è un dato che sottolinea ancora una volta quanto sia smisurato il mercato tedesco), i Dark Age suonano una sorta di melodeath o metalcore che io mi ostino a chiamare, sempre convinto che esistano soltanto i generi classici, power moderno con inserti death. E devo dire che, in un genere inflazionato come questo, i Dark Age hanno poche probabilità di farsi notare fuori dai patri confini, anche se spingono molto sugli elementi più appetibili per un pubblico non specializzato (e quindi non di metallari in senso stretto): occasioni concessioni all’elettronica, al sound duro dei Rammstein, addirittura al nu (in qualche passaggio riecheggiano i primi Linkin Park) li renderanno invisi ai defenders, ma gli regaleranno magari qualche passaggio radiofonico in più. “Nero” ci introduce al disco su un ritornello ultramelodico, mentre il singolo “Afterlife” contiene i chitarroni più pesanti e anche le aperture più sostanziose a suoni elettronici. “Out of Time” è tostissima, rammsteiniana (come si diceva), mentre “Don’t let the Devil get me” è il brano in scaletta che maggiormente definirei nu metal. Oggettivamente riuscita la ruggente “My Saviour”, con un altro refrain che non si dimentica e il riuscito, eterno contrasto fra rabbia e melodia, mentre “Glory” ha momenti quasi epici affidati alle keys. Il finale di “The Locked in Syndrome” ci incalza con prepotenza nel suo crescendo, mentre “Onwards!” procede cadenzata e solenne grazie alle sue tastiere imponenti. Un disco che non dispiace, ma che – come si diceva in apertura – ha ben poco che lo differenzi dalle centinaia di uscite di genere.

(Renato de Filippis) Voto: 7/10