(Tsunami Edizioni) «Quando Ronnie cominciò a scrivere questo libro, voleva che non avesse una fine» esordisce così nel prologo Wendy Dio, la moglie di Ronnie James Dio. Una persona con la testa sulle spalle, è stata infatti la manager di suo marito e di fatto ne cura ancora l’eredità. Una persona pratica ma anche dolce, come suo marito. R.J. Dio è una delle figure del metal più importanti. Una vera icona. Un grande cantante che ha militato in almeno due band formidabili, illustri, cioè Black Sabbath e Rainbow. Questo vuol dire che R.J. Dio ha cantato accanto a due tra i più importanti chitarristi della storia del rock: Tony Iommi e Ritchie Blackmore. Aveva iniziato con gli Elf, ha poi creato la propria band multi-platino, cioè i Dio, che lo ha reso ricco, amato e rispettato. Le corna, i testi con il taglio fantasy e non solo, la sua passione per oggetti gotici, medioevali e antichi, il legame con i fans, il sapere stare al gioco nel music business… R.J. Dio è stato questo e tanto altro. La sua carriera ha restituito al mondo l’immagine di una persona semplice ma grintosa, buona, ottimista e molto decisa nelle cose della vita.

R.J. Dio era intenzionato a scrivere un’autobiografia ed era materialmente giunto agli anni con i Rainbow. Scriveva rigorosamente a mano su carta i suoi pensieri che passava a Wendy, la quale a sua volta dopo una rilettura li trasferiva alla segretaria che batteva tutto al computer. Poi nel 2009 si palesò quel male, un cancro allo stomaco, che se lo sarebbe portato via il 16 maggio del 2010 a Houston all’età di 68. Al sorgere della malattia la sua determinazione a lasciare una testimonianza della propria esistenza crebbe. Allora era giunto agli anni con i Rainbow e aveva già preso appunti e schematizzato il seguito che, in accordo con sua moglie, sarebbe giunto idealmente al 1986. Precisamente nella notte in cui i Dio si esibirono come headliner al Madison Square Garden di New York. Per R.J. Dio quello era infatti il sogno di una vita, cioè avere il proprio nome sul cartellone del Madison. Non gli era bastato esibirsi già due volte con una band della quale faceva parte, i Black Sabbath, lui voleva affisso proprio il suo di nome.

Wendy Dio, nata Gaxiola, in collaborazione con lo scrittore e giornalista Mick Wall – tra i suoi libri anche “Guns N’ Roses – Gli Ultimi Giganti del Rock” presente nel catalogo Tsunami – hanno dunque reso finalmente possibile questa autobiografia. Per stessa ammissione di Wendy Dio ci sarebbe ancora materiale per coprire il quarto di secolo mancante, appunto dal 1986 al 2010, al momento però questo volume è ciò che arriva direttamente dalle intenzioni e pensieri di suo marito. Alle parole di proprio pugno del protagonista, Mick Wall ha integrato anche quelle dello stesso recuperate da interviste. Un lavoro di ricerca che completa dunque le preziose testimonianze e narrazioni di R.J. Dio. La lettura è scorrevole perché lo stesso era un buon oratore, scriveva anche bene, sapeva sempre intrattenere e si avverte come il suo raccontare arriva a tracciare la sua stessa adorabile personalità. Leggere i racconti, le vicende, ricordi e impressioni, quanto dolori, gioie, affetti e conflitti, sia personali che del music business è qualcosa che rapisce il lettore. In “Rainbow in the Dark” emerge costantemente il sereno entusiasmo di R.J. Dio quanto il suo realismo, la sua lucida praticità, la capacità di analisi, soprattutto però il suo costante ottimismo.

Figlio di una famiglia proveniente dall’Italia, capitanata da suo nonno Tony Padovano che sbarcò negli States e che successivamente la famiglia cambiò il nome in Padavona, perché i figli di Tony nell’andare a scuola trovarono più semplice da scandire questa sillabazione, Ronald James Padavona, questo il vero nome di Ronnie, è quasi esilarante nel descrivere la sua infanzia e la tumultuosa adolescenza. Ma di sorrisi ne strappa poi lungo tutto il percorso narrativo. Perché di cose ne succedono, ovviamente, ma questo spazio è troppo piccolo per elencarle.

I passi sulla sua infanzia e la sua famiglia sono magnifici. Soprattutto questo: «che notai mia nonna fare uno strano gesto con la mano, quando qualche estraneo si avvicinava o ci passava troppo vicino. Alzava l’indice e il mignolo piegando medio e anulare nel palmo e tenendoli col pollice. Avrei scoperto solo anni dopo che era il segno del “Maloik” (come lo pronunciavano gli italoamericani), conosciuto come le Corna o il Segno del Diavolo o la Mano Cornuta. Mia nonna lo usava come protezione dal malocchio».

(Alberto Vitale)