(SPV/Steamhammer) Premessa: i Virgin Steele sono il mio gruppo preferito; ma non posso fare finta che non si dibattano da anni in una preoccupante crisi artistica che si estende almeno dall’inizio del millennio. Se, come tanti, ho rivalutato nel tempo “Visions of Eden”, mi sono rassegnato a ignorare i “Black Light Bacchanalia”, un platter oggettivamente brutto; e ho tentato di trarre il meglio da “Nocturnes of Hellfire & Damnation”, che oggi, a tre anni di distanza, valuterei forse con un po’ meno entusiasmo. Stiamo parlando di una band che, dal 1986 al 2000, ha praticamente composto un capolavoro dietro l’altro, con l’apice fra “The Marriage of Heaven and Hell II” e “Invictus”: ripetersi era oggettivamente impossibile, mantenere uno standard elevato era invece un dovere.

Oggi la SPV distribuisce “Seven Devils Moonshine”, ragionevolmente economico box di 5 cd che, se ripresenta con minime variazioni le due raccolte “Hymns to Victory” e “The Book of Burning”, ci aggiunge tre cd di materiale ‘nuovo’. Ben 58 brani che fotografano lo stato dei Virgin Steele oggi: cioè mostrano un DeFeis strabordante e quasi fuori controllo, che si diletta con cover (ne conto addirittura 25 in scaletta, che vanno da Robert Plant agli Alice in Chains), versioni orchestrali (7, da quella buona di “Black Light Bacchanalia” a quella bruttissima di “Kingdom of the Fearless”), live in studio (2), quattro versioni alternative di varia natura (riuscita malissimo quella di “By the Hammer of Zeus”) e, se ho fatto bene i conti, 20 pezzi nuovi. Se tutto il materiale di cui sopra può incuriosire o interessare i fan di vecchia data, per vedere come il buon David si confronti con i Doors o con i T-Rex, questi 20 brani dovrebbero dirci come sta la sua band oggi: per questo provo ad analizzarli uno per uno divisi per i tre cd ‘inediti’.

“Ghost Havrest – Vintage I – Black Wine for Mourning”

È, di fatto, il disco ‘nuovo’, dato che contiene la stragrande maggioranza degli inediti. Si inizia con gli otto minuti di “Seven Dead within”, brano vicino alle atmosfere dei “Nocturnes” (il refrain ricorda abbastanza quello di “Hymns to Damnation”), dove c’è tutto e il contrario di tutto: l’insieme finisce per apparire abbastanza confuso e il solo di chitarra (che non sembra neanche di Pursino, ma non ho a disposizione i credits) è poco amalgamato con il resto. Chi si aspettava (di nuovo) un ritorno al passato non potrà che essere deluso… “Green Dusk Blues” sono altri otto minuti che su un giro effettivamente bluesy divagano in modo non sempre coerente: pecca maggiore è sempre la batteria orrendamente campionata. “Psychic Slaughter” va meglio, il giro di piano è evocativo e la linea vocale ardita; la melodia vocale di “Hearts on Fire” imita a un certo punto “A Cry in the Night”, mentre “Child of the Morning Star” convince molto di meno per un refrain non efficace e ripetuto troppe volte. Dopo l’intro “Murder in High-Gloss Relief”, i dieci minuti di “Feral” hanno tutti i difetti degli ultimi Virgin Steele: prolissi, lamentosi, apparentemente sconclusionati. “Justine” sarebbe una ballad accettabile se non durasse (ancora) attorno agli otto minuti; qualche barlume del passato splendore in “Princess Amy”, che indovina finalmente assolo, suoni delle chitarre e linea vocale. Si conclude sulla stessa linea, che poco ha a che fare con il metal, con il conclusivo “Clouds of Oblivion Medley”, che unisce “Little Wing” di Jimi Hendrix a un breve excursus chiamato “The Gods don’t remember”. In definitiva, “Black Wine for Mourning” suona nel complesso stiracchiato, prolisso e quasi sempre poco ispirato. Non è un disastro completo perché alcuni brani sono godibili, ma sembra impossibile che stiamo parlando della stessa band di “Invictus”.

“Ghost Havrest – Vintage II – Red Wine for Warning”

Ventisei (!) brani, alcuni brevissimi, per il secondo atto. I primi due originali sono intro e outro a “Summertime”, che con il celeberrimo brano di George Gershwin compongono la “Summertime Darkness Suite”. Il “The Gods are hungry Tryptich” si compone invece di una breve divagazione pianistica (“The Gods are hungry Poem”, sembra qualcosa dei Queen di metà anni ’70), di un solo di Pursino (“The poisoned Wound”) e di un remake di “The Birth of Beauty” dai “Nocturnes”. Nel medley “Late Night Barroom Hodoo”, che incorpora ZZ Top e Doors, mi sembra originale solo la breve intro di piano “Slow and easy”; anche nella suite “The drained White” sono solo brevi brani (l’ossessiva “Imhullu”, il reprise “Wake the Dead” e la scatenata “Graveyard Dance”) a incorniciare “After Dark” di Tito & Tarantula. “The triple Goddess” è, credo, l’unica ‘vera’ canzone del disco, e mostra bene l’autoreferenzialismo dei Virgin Steele di oggi: su una atmosfera cupa, alla “House of Atreus”, abbiamo otto minuti con lunghissima intro, improvvise rotture, cori ossessivi per Ecate… il tutto sospeso fra alcuni momenti potenzialmente sublimi ed altri a un passo dal cacofonico. In “Red Wine…” il metal è ridotto all’osso, e il resto può interessare soltanto ai fan intramontabili.

“Gothic Voodoo Anthems”

“Zeus Ascendant” è una breve intro d’atmosfera a, ovviamente, la versione orchestrale di “By the Hammer of Zeus”: è l’unico pezzo originale di tutto il terzo cd, diviso quasi equamente fra cover al pianoforte e versioni orchestrali dei classici.

Che si può aggiungere? Tutti i cassetti sono stati aperti, 25 cover possono pure andare bene, ma il materiale inedito mi sembra mostrare come la crisi di ispirazione perduri… ormai a tratti anche lontani dal semplice metal, i Virgin Steele stanno gettando ombre sempre più lunghe sul loro gloriosissimo nome. Spero che DeFeis abbia una soluzione: perché gli inediti di “Seven Devils” mettono, tragicamente, assieme il peggio dei “Bacchanalia” (prolissità e scarsa incisività dei brani) con il peggio dei “Nocturnes” (produzione indecente). E parla una persona che tiene appesa nello studio una lettera firmata dal nostro e indirizzata personalmente al sottoscritto.

(René Urkus) Voto: sv.