I Destrage in tanti anni si sono spinti verso diverse frontiere del metal, per una ricerca musicale che viene fuori da un’indole mai doma, mai uguale a sé stessa. Paolo Colavolpe, frontman della band milanese, risponde alle nostre domande.

MH: Ciao, grazie per questa intervista e da subito ne approfitto per fare a te e alla band i miei complimenti: trovo che siete stati tra le cosemigliori e più innovative nel panorama del metal in Italia e non da meno in Europa da diverso tempo.

PC: Ciao Alberto, Grazie mille a te per le bellissime parole sul nostro progetto e lo spazio a noi dedicato!

MH: Cosa vi ha spinto ad andare sempre più avanti, cioè all’andare sempre più veloce, per esempio, ed essere al contempo estremi ma con una logica, all’interno delle vostre composizioni?

PC: Ci hanno sempre spinto la curiosità e la voglia di superarci e metterci in gioco. Questi fattori sono da sempre il motore trainante del nostro progetto. Ci annoiamo facilmente e questo credo si rifletta su quello che scriviamo e cerchiamo di comunicare.

MH: Curiosità personale: come cambia un vostro pezzo dal momento che lo ritenete finito in sala prove a quando poi entrate in studio? Quali elementi entrano in gioco affinché un pezzo poi prenda una certa strada e senza ripensamenti? Il produttore, il riascolto del registrato…cosa?

PC: Siamo quattro teste con quattro background e approcci alla musica molto diversi tra loro. Un pezzo è chiuso quando tutte le parti sono convinte del risultato, può capitare di chiudere un pezzo in 2 ore come in 3 mesi. In sede di registrazione ovviamente avvengono cambiamenti e migliorie dell’ultima ora, ma si parla comunque di dettagli.

MH: Avete pubblicato tre album con Metal Blade Records, come mai poi il rapporto non è più proseguito?

PC: Ci siamo trovati molto bene con MB e tutto lo staff che ci ha supportato nelle ultime tre release della nostra carriera, ma era il momento giusto per salutarci. La loro linea di roster aveva da qualche tempo preso una strada molto figa e delineata a mio avviso ma che al contempo non si sposava più con il percorso dei Destrage. Abbiamo dunque deciso di firmare per 3DOT/ Century Media, anche alla luce dell’ottimo rapporto che ci lega ai ragazzi dei Peiphery, da sempre grandi estimatori del nostro progetto. 

MH: Io sono molto legato al vostro secondo album “The King Is Fat’n’Old”. Che tempi erano quelli e cosa sono oggi rispetto ad allora i Destrage?

PC: Erano altri tempi decisamente, umanamente non siamo cambiati di una virgola, siamo sempre i soliti babbi (ride, ndr) ma siamo cresciuti ovviamente. “The King” l’abbiamo scritto che avevamo poco più di 20 anni. I nostri approcci e il nostro spirito si è evoluto, al contempo senza mai snaturarsi. Ora diciamo che c’è meno veemenza ma più consapevolezza.

MH: I Destrage si formano a inizio anni 2000, avete realizzato i primi demo, il primo album “Urban Being” è del 2009. Rispetto ad allora come percepisci il ruolo della musica oggi? La mia impressione è che sia oggi meno importante negli interessi delle persone e meno aggregante rispetto a una volta.

PC: In realtà i Destrage per noi sono nati nel 2006, prima erano dei ragazzini che facevano delle cover per suonare alla festa di fine anno scolastico. Detto ciò devo dissentire, credo che la musica invece sia sempre più parte integrante della vita delle persone. Pensa anche solo a quante persone grazie allo streaming e agli iPhone ascoltano musica di continuo durante il giorno. Per quanto riguarda l’aggregazione è una questione di filoni e generazioni, non si può non considerare la scena hip hop degli ultimi 10 anni non aggregante, perché ha unito un’ intera generazione. In una maniera diverso rispetto a come fecero altri correnti in passato certo, con altri “valori” e stilemi, ma si sa: la storia si ripete sempre ma in maniera diversa da come ce lo aspettiamo.

MH: Quella copertina per il vostro ultimo album “So Much. Too Much”… cosa significa?

PC: È un fantastico lavoro di Luca Ferrario, non esiste un vero e proprio significato, ma è la sua rappresentazione visiva di quello che è il nostro album. Un meltin’ pot di stili, dai colori molto accesi e dall’animo estremo.

MH: Se non erro sono tre anni che non suonavate dal vivo. Come è stato ritornare sul palco? La domanda è riferita al fatto che il vostro nuovo materiale live è una bella prova, per via della sua complessità! Però siete stati voi a comporlo, dunque tutto va per il meglio!

PC: Non ti nascondo che i tre anni, di cui uno e mezzo di stop completo, sono molto serviti alla band. Fermarsi un attimo, riposare e pensare è stato fondamentale per ricreare sinergia e schiarire le idee sulla direzione da prendere in questo nuovo disco. Riprendere dal lato compositivo è stato liberatorio, da un punto di vista del live invece abbastanza traumatico (ride, ndr). Rimettere in piedi la macchina, le prove, la strumentazione, lo show è stata davvero dura. Ma ripartire subito con quindici date in Europa ci ha permesso di rompere il ghiaccio e di farci tornare molto in fretta a divertirci. Ora siamo carichissimi e pronti per il 2023.

MH: Grazie mille! Le parole finali sono per te!

PC: Grazie mille ai lettori di Metalhead per il tempo a noi dedicato, vi invitiamo ad ascoltare il nostro ultimo album “So Much. Too Much”. E perché no di venirci a vedere dal vivo nel concerto più vicino a casa vostra! Djieeeeah!

(Alberto Vitale)