Se dovessi raccontare a qualcuno come abbiamo vissuto il concerto degli Evergrey, gli direi sicuramente che è stato tanto bello quanto passare una serata in compagnia di chi conosci da sempre.

Maledette distanze! Me lo ripeto ogni volta che mi sposto per una serata che attendo con ansia, ma nonostante il solito traffico di Roma, tutti i giorni a tutte le ore, giungo al Traffic Club appena in tempo per l’inizio del live del primo gruppo spalla, i Crossing Eternity. La band ha origini miste, Romania e Svezia , e ci ha presentato giusto un assaggio del primo album “The Rising World”, animando sin da subito i presenti sotto al palco.

Gli amici… lo dicevo qualche riga sopra, perché l’intimità di un locale così piccolo come il Traffic, oltre a soffocarti quel pochino che in un concerto metal non guasta mai, ti dà anche la possibilità di entrare ancora più nel vivo dell’evento. Chi da buon metallaro non è mai andato alla conquista della famosa transenna sotto al palco? Ve lo dico io, nessuno!

E in questo locale, tra i più piccoli in cui io abbia preso parte a concerti di questo tipo, ci si schiaccia letteralmente su una piccola barriera di ferro che non puoi fare a meno di abbracciare il vicino con cui stai facendo a spallate da ore, non che questo non succeda anche altrove, ma al Traffic tutto diventa più intenso: gli spazi ristretti e la distanza, che non supera i 20 cm, della transenna dal palco, ti permettono di essere naso a naso con chi si sta esibendo, ampliandone le emozioni. Spesso le esigenze dei locali di doversi adattare a quelle dell’evento che ospitano, cambiano inevitabilmente anche le emozioni e la percezione di chi ne prende parte.

Così, sempre incollati l’uno all’altro, si cambia scena e incontriamo il secondo gruppo di supporto, i Genus Ordinis Dei, dei ragazzi italiani di Crema (CR), di cui ho apprezzato soprattutto la gestione di un pubblico indisciplinato e distratto. Ci hanno piano piano scaravantati nel loro mondo con un death metal interessante e mai monotono, oltre a qualche imprevisto sul palco durante l’esecuzione di un pezzo, quando l’asta del microfono del cantante/chitarrista, vola sulla folla quasi colpendo in testa il fotografo, prontamente salvato da un ragazzo alla sua sinistra. Ve lo dicevo io che qui le distanze sono inesistenti!

Dopo averci riso su e fatto un grande applauso di incoraggiamento ai Genus Ordinis Dei, ampiamente meritato, giusto il tempo di prendere una birra e di cominciare a scaldare la voce, impazienti per l’arrivo della band principale, ci stringiamo nuovamente all’ascolto dell’ultimo gruppo spalla. Finlandesi e con uno spiccato senso dell’umorismo, i Bloodred Hourglass, hanno fatto innamorare i presenti, non solo con il loro death metal/metalcore ma anche con la simpatia, soprattutto del cantante, che sforzandosi di parlare un italiano a dir poco cacofonico, metteva insieme parole imparate in terra romana in un mix di battute divertenti. Non propriamente con il fascino dell’uomo scandinavo, ma con le movenze alla Anders Fridén (leader degli In Flames), sono sicura che ha fatto strage di cuori quella sera, visto soprattutto lo sguardo perso e libidinoso delle ragazze accanto a me.

Finalmente sono le 22.50, orario di esibizione da tabellone, ma gli Evergrey tarderanno il loro ingresso in scena di almeno venti minuti, come sempre i grandi artisti si fanno attendere, il locale si è riempito e la gente non ne può di aspettare, quando improvvisamente si spengono le luci per poi riaccendersi di colpo seguite dalle nostre urla di gioia.

Comincia il pezzo forte della serata. Evergrey aprono con “A Silent Arc”, primo brano del nuovissimo album “The Atlantic”, incantano il pubblico per oltre sette minuti, per poi proseguire in un live che ci ha regalato in totale l’emozione di quattordici pezzi.

Su un’altalena tra passato e presente, con alcuni brani estratti dagli album “The Storm Within” o “ Hymns for the Broken”, carichi di intensità, hanno accompagnato il pubblico sulle onde di un viaggio in un mare di ricordi, imprimendo nella mente degli spettatori momenti indelebili, il tutto amplificato da quelle brevissime distanze di cui vi parlavo tra i fan e la band, che hanno permesso ai più vicini di toccarli con mano durante l’esibizione e aver provato il brivido di un’energia così potente.

Gli svedesi hanno interagito tanto con noi, oltre a regalarci la loro arte; con la frase “anyway, let’s get fucking drunk!” ogni volta invitavano il pubblico a divertirsi, intrattenendoci con piccoli aneddoti di vita quotidiana a dir poco esilaranti, tra cui lo sfortunato episodio del “ristorante in centro”, dove non essendo riusciti a trovare qualcuno che fosse capace di spiegargli in inglese i piatti del menù, hanno dovuto chiamare un loro amico italiano che facesse da traduttore simultaneo al telefono. Aimè ci facciamo sempre riconoscere!

A fine concerto ci hanno inoltre dedicato ulteriore tempo, recandosi al piccolo stand che avevano allestito per il merchandising della band, permettendoci di farci autografare dischi e maglie, oltre alla grandissima disponibilità nel fare foto con loro.

Una serata degna di essere ricordata con il sorriso, finita oltre le ore 2.00 e che nonostante le ormai tre ore di sonno che mi separavano dal mio prossimo turno di lavoro, ricorderò come uno dei tanti dolci sacrifici per cui ne è veramente valsa la pena.

(Simonetta Gino)